La lotta vittoriosa contro il «Tignoso d’inferno» di s. Veronica Giuliani (1660-1727)

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di don Renzo Lavatori [1]

 

Tra i vari santi perseguitati dal demonio Santa Veronica è forse detentrice di un primato. I demoni si sono resi presenti nella sua vita con vessazioni fastidiose, manifestazioni in vari modi e forme, maltrattamenti fisici spesso dolorosi, tentazioni e continue minacce, dispetti e combattimenti. Dio ha permesso l’aggressione di Satana contro di lei al fine di perfezionare le virtù e in particolare quella dell’umiltà. In mezzo a numerose e svariate sofferenze Veronica ha vissuto la grande consolazione che le veniva dalla consapevolezza di collaborare con Gesù per la salvezza delle anime. Ella, registrando nel Diario tutto quello che le accadeva, ha descritto anche gli innumerevoli assalti subiti da parte del demonio e le modalità con cui si è contrapposta alle sue insidie.[2]

1. Gli attacchi satanici e le reazioni di Veronica
L’azione del maligno si dispiega su tre campi in cui si cimenta l’ascesa spirituale di Veronica: uno è dato dalla stessa composizione dell’andamento claustrale e della convivenza in comunità; il secondo concerne il tempo della preghiera e del raccoglimento nell’intimità con Dio; il terzo consiste in uno stato interiore di noia e di insofferenza brutale.

a. Durante la vita monastica dovette sopportare parecchie contrarietà, che superò accettando le croci e le pene. Il demonio approfittava di queste situazioni di fastidio per riuscire meglio nei suoi intenti: “il tignoso d’inferno”, come la Santa denomina il demonio, non lasciava intentato nessun mezzo per abbatterla; prima agiva con la menzogna, e poi, visti inutili le sue mire, sfogava il suo livore con violenze brutali. Veronica dovette sostenere frequenti fastidi, tentazioni, ripugnanze e assalti del maligno, che la insultava e la percuoteva. Le tensioni più difficoltose furono quelle contro la fede e la vocazione monastica, sollecitando anche gli scrupoli sulle confessioni fatte. Ella lo annota con realismo e umile consapevolezza:

“L’andare all’orazione mi pareva fosse tormento e non trovavo altro che tenebre. Oh, quanto mi scottava di non poter ritrovare il mio Sommo Bene! Stavo tra tenebre, tra timori, senza sussidio nessuno. Già vedevo tutto perduto, né potevo aiutarmi con preghiere, perché per me non vi era né Dio né Santi. Stando io fra l’oscurità, se mi venivano per il pensiero i lumi e le aspirazioni avute per il passato, tutto serviva per più patire; perché tutto parevami fosse stato illusione diabolica e cose di propria immaginazione. Mi vennero tali tentazioni e con tale offuscazione di mente, che tosto divenne ogni cosa tenebre. Tutto questo giorno, con la notte e il giorno veniente, lo passai così senza sentimento nessuno. Altro non restava nella mia mente, che tutto il mio operare fosse operazione di satanasso e che il voler imitare le sante, era vera superbia; ché tanto per me non vi è più rimedio”(D. II, 601.604)

Le manovre sataniche si muovevano su tre fronti principali: il primo, il più evidente e tormentoso, è quello di travolgere la Santa dall’oscurità spirituale a causa dell’oscurarsi della fede. Per lei non esisteva altro che nebbia densa o, peggio ancora, la tenebra interiore, nella quale non si poteva vedere alcuna realtà, perché tutto era sovrastato dal buio denso. Lo stesso Bene sommo, che costituiva il suo riferimento basilare, era come scomparso. Anche la preghiera, di cui si alimentava il suo animo, appariva inutile e insignificante, priva di luci che potessero farle intravedere il senso e il valore dell’orazione.

            Il secondo fronte dell’attacco demoniaco è posto nella mente, per suscitare pensieri non solo di offuscamento ma anche di demolizione attorno a quelle realtà spirituali che Veronica aveva ricevuto dalla divina Bontà come fossero pure costruzioni umane e non già frutto della grazia. In un attimo erano vanificate e perse nel nulla quale illusione menzognera del demonio. Questa seconda tentazione cerca di distruggere il cammino fatto, causando scoraggiamento e depressione.

            La prova più grande e faticosa avviene sul terzo fronte, quando la Santa non solo si vede derubata delle fatiche e dei doni dello Spirito Santo, ma addirittura le sue esperienze mistiche le apparivano come opera satanica per provocare in lei l’orgoglio spirituale di voler imitare le Sante e perciò essere destinata alla condanna eterna. La superbia costituisce l’elemento più rilevante per l’allontanamento da Dio e la perdita del Bene sommo. Quest’ultima tentazione genera in lei una vera tortura e la prostra in una profonda afflizione. Probabilmente si tratta dell’aspetto più amaro e angosciante.

            Le tre situazioni tornano in un crescendo di potenze negative che si abbattono su Veronica: la notte interiore, che la avvolge totalmente e la copre di tenebra, determina la combinazione generica e desolante; la perdita del patrimonio spirituale la fa cadere nella totale nullità e le insinua il dubbio dell’inganno e dell’illusione; infine si fa pungente la malignità di essere mossa dalla propria vanagloria nel ricercare la sequela di Cristo, proiettandola nello spavento del fallimento finale. Sotto tale ossessione si forgia tuttavia il suo animo, mentre la fede e l’amore si irrobustiscono nella purificazione da ogni possibile infiltrazione malvagia e peccaminosa.

b. Veronica inoltre veniva ostacolata nell’orazione. Il demonio, puntando sulla debolezza della sua umanità, non perdeva occasione nel tentarla ad abbandonare il sacrificio della preghiera.

La aizzava perché tralasciasse le pratiche di pietà e con parole suadenti la invitava a concedersi riposo:

“In questo mentre, mi è parso di sentire una voce, ivi vicina a me, che così mi diceva: O pazza che tu sei! Non vedi che ti eleggi un inferno, in questa vita? Ti basti quello che avrai, nell’altra, che, ti assicuro, sarà grande. Va un poco a riposare; non ti prendere tanta pena, perché già l’avrai, nell’altra vita. Questa voce che sentivo, mi faceva tutta travagliare e mettere sossopra; ma mi sono accorta che era il nemico infernale. Non si faceva vedere con vista, ma bensì lo sentivo bene; e mi attizzava molto che io tralasciassi l’orazione” (D. I, 548).

            L’insinuazione satanica appare allettante e per certi aspetti anche prudente: perché cercare tante tribolazioni su questa terra, quando ce ne saranno molte di più e più pesanti nell’aldilà? Un po’ di riposo e di quiete fa bene al corpo e all’anima senza doversi agitare per inventare penitenze eccessivamente gravose che potrebbero provocare malanni fisici. In fondo il buon senso deve moderare le esagerazioni ascetiche. Il consiglio dunque poteva essere ben accetto. Veronica però non si lascia ingannare e istintivamente opera un discernimento riconoscendo essere una tattica demoniaca per allontanarla dalla preghiera. Questa invece deve avere il primo posto nella vita monastica e nella crescita spirituale. La tentazione viene allontanata, con una lucida dichiarazione scaturita dall’animo di Veronica:

“Di nuovo, ho preso un poco di animo e gli ho detto: O bestia infernale, per te non ho cominciato la mia orazione e per te non la voglio lasciare. Viva il mio Dio! Esso è il trionfatore di tutte le vittorie. In lui confido, di me diffido. E poi, rivolta verso il Signore, così gli andavo dicendo: Mio Gesù, aiutatemi. Vostra sono; Voi solo voglio amare. Questo cuore altro non brama che di unirsi a Voi. Trattatemi come volete; sono contenta di darvi gusto. Questa notte, altro riposo non voglio, che di perseverare e fare la vostra volontà adesso e sempre” (D. I, 548).

            La reazione di Veronica non si fa attendere, ma con prontezza e lucidità getta davanti a Satana un ragionamento così logico da non fare una piega e non ammettere appigli. Ella ripropone decisamente il primato da dare a Dio, perché è Lui che deve adorare, servire e pregare; a Lui ha rivolto la sua orazione e da Lui non può distaccarsi per assecondare le insulse richieste del tentatore. Poi fa un esplicito atto di affidamento al suo Signore, da cui soltanto attende protezione e grazia riproponendo con forza l’appartenenza totale a Lui. Solo Gesù ella deve amare con tutte le energie e per amor suo è pronta ad affrontare ogni pena. Ribadisce con convinzione la teoria che l’amare non può dissociarsi dal patire. In tal modo Veronica mostra non solo la coerenza interiore ma si fa autentica maestra di fedeltà assoluta alla divina volontà. Questa sua certezza diventa un ostacolo insuperabile dalle insidie del maligno che se ne va sconfitto e smascherato nella propria viltà menzognera.

“Mentre così dicevo, mi è venuta quella agonia di morte e parevami che il Signore fosse molto più nascosto. Le tenebre crescevano, le tentazioni rincalzavano, l’umanità si abbatteva e più non potevo respirare. Sono stata, buon tempo, così col puro atto di fede, e con gran patire. Sia tutto per amore di Dio! Il tutto è poco!” (D. I, 548).

            Alla fine sopraggiunge impietosa la prostrazione dell’anima che la imprigiona nuovamente nelle tenebre e nella solitudine angosciosa fino a mancarle il respiro. Eppure resiste eroicamente, aggrappandosi unicamente alla pura e cruda fede e alla dedizione amorosa a Dio. Veronica rivela una grande forza interiore, restando ancorata saldamente alla solidarietà del patire con l’amare. Si resta sorpresi e ammirati. Grazie alla sua obbedienza di scrivere le esperienze mistiche, ella ha lasciato una testimonianza impareggiabile di fermezza e di coerenza.

 

c. Spesso Veronica si sentiva invasa da una noia inesplicabile, da un senso di vuoto, di tristezza, di nausea; provava astio verso il monastero, dichiarando di non riuscire a sopportare neanche se stessa; il vedersi con l’abito addosso le dà tormento, lo scrive con sincerità:

“Questa notte, sono stata travagliata, di molto, con tutte le sorte tentazioni. Non potevo aiutarmi con niente; mi sentivo un’afflizione di morte. Fra le altre pene che avevo, il tentatore mi metteva un aborrimento e tedio a tutte le cose della Religione. Il vedermi quest’abito addosso, mi dava tormento. O Dio! Che pena, che dolore mi apportava! Non avrei voluto avere tali cose, per non offendere Iddio. Così dicevo: Mio Signore, se volete che tali cose servano per più patire, e sia la vostra volontà che io le senta, ma non consenta, eccomi pronta a patire questo e tutto quello che Voi volete. Purché, di volontà, non vi offenda mai e poi mai, questo mi basta. E poi, rivolta a me stessa, dicevo: O Veronica, che badi Che fai? Che non ti dài, del tutto, in tutto, ad amare il Sommo Bene? Ora è tempo. Fra tenebre, fra il patire si trova il vero amore. Ora io baciavo il santo abito, ora le mura …” (D. I, 304).

            In questo brano possono rilevarsi tre pennellate interessanti che offrono ulteriormente un quadro suggestivo della spiritualità veronichiana. Anzitutto ella fa vedere come il diavolo le mette addosso una specie di fastidio, che poi si tramuta in rifiuto e riluttanza verso le cose sacre proprie della vita monastica e in particolare verso l’abito religioso, che pur ella indossava con profonda venerazione e rispetto. Strano sovvertimento! Esso le causa una dolorosa angoscia, che tuttavia riconosce provenire dal tentatore. Allora si rianima rivolgendosi confidenzialmente al Signore.

            In questa invocazione appare un secondo tratto della sua anima, la quale distingue le sensazioni provate contro la vita religiosa dal consenso a tali sentimenti. Ella lo indica quando dice di sentire ma non di approvare o acconsentire. Non avrebbe voluto neanche percepire simili malvagie impressioni, che le arrecano tanta pena, ma tutto offre alla divina volontà. Trasforma il patimento in offerta di amore. L’importante è che la sua libera adesione resti sottomessa a Dio.

            Giunge infine al terzo tocco di elevata spiritualità, in cui si sprofonda nell’amore al sommo Bene. Adesso si affida totalmente a Lui e lì trova la pace suprema, perché nel patire si trova il vero amore. Grande animo quello di Veronica! E’ vero che ha sofferto tremendamente, ma è anche vero che ha assaporato la tenerezza e la beatitudine della Bontà infinita.

Il demonio interveniva con insistenza, per accrescere le difficoltà. Giova ascoltare ancora alcune considerazioni nelle quali appare la maestria di Veronica nel superare le insidie del nemico e che possono dare luce a tante anime, le quali si trovano a dover attraversare il medesimo cunicolo:

“Questa notte, vi sono stati di molti travagli; in specie, fra tre volte, ho sentito una voce spaventevole che così mi andava dicendo: O pazza che tu sei! Non vedi che tutte le grazie e doni che hai ricevuto, sono cose diaboliche? Se fosse Iddio, saresti santa perché sono cose grandi. In questo punto mi metteva una fine tentazione di vanagloria. Con atti interni di umiltà e con ricorrere alla B. Vergine, ho vinto. Ogni volta, mi rincalzava più. Alla fine mi ha messa una grande tentazione di disperazione. Questa ancora l’ho vinta con atti di speranza fede in Dio. Quando sentivo quella voce, vedevo anche un fantasma di orribile aspetto che mi dava urtoni, e diceva: Non occorre che tu cerchi altro; non vi è rimedio per te; sei nostra” (D. II, 738).

            Questa volta il diavolo mette alla prova Veronica sotto tre funeste menzogne: la prima cerca di confondere il bene con il male, suggerendo l’idea che le grazie e i doni in lei sono stati originati dai demoni e non da Dio, altrimenti sarebbe una santa. Da qui nasce la menzogna della vanagloria per far credere a Veronica di aver raggiunto un alto grado di perfezione e di potersi considerare una donna colma di santità. Infine la terza menzogna, la più grave e impertinente, vuole ispirare nell’animo di Veronica la convinzione di essere posseduta da Satana, di appartenere al suo dominio ed essere sua schiava. Ciò provoca in lei un senso di demoralizzazione fino a pensare di essere dannata. Povera Veronica! Quanta amarezza ha dovuto provare. D’altronde si sa che il diavolo è menzognero e padre della menzogna, come lo definisce Gesù stesso. Da lui certamente non può uscire alcunché di vero e di buono.

“Dopo il Mattutino, mentre volevo fare un atto di obbedienza di scrivere per un quarto d’ora, ebbi all’improvviso un gran pugno in un occhio e sentii una voce che disse: Maledetti scritti! Con furia, voleva levarmi la tavoletta e il calamaro; ma li ritenni. Mi fece ridere; ma sentivo tanto il gran dolore nell’occhio; e mi lagrimava tanto. Pensavo fosse crepato. Non potei farci altro. Offerivo a Dio la pena che sentivo. (I demoni) fecero gran rumore in cella; e lasciarono un puzzore così grande, che mi faceva venir meno. Sia tutto per amore di Dio!” (D. II, 738)

            Altra circostanza sconvolgente e dolorosa è quella in cui le si avvicina il diavolo in persona per impedirle di scrivere il Diario, definito “i maledetti scritti”, e distoglierla dall’impegno assunto. Lei reagisce con prontezza ed energia. Tuttavia rimane con l’occhio offeso per il pugno ricevuto dal demonio, pensando che fosse accecata. La vittoria tuttavia è dovuta a Veronica che in ultimo, come di consueto, sa congiungere la grande sofferenza con altrettanto immenso amore verso Dio. L’amore dunque vince e trasforma il dolore. Qui va posto il suo successo contro gli attacchi del tignoso d’inferno.

2. La malignità diabolica e la visione dell’inferno

Sono significativi due episodi che mostrano la perfidia del maligno nella lotta con la Santa.

Il primo fatto è veramente curioso. Assumendo le sembianze di Veronica, il demonio entrò un giorno nella camera di una compagna, con la quale iniziò un discorso dicendo tutto il male possibile della Madre maestra. Sorpresa e scandalizzata, in preda a grande agitazione, la suora si recò subito dalla Madre per metterla al corrente del fatto. La maestra ne rimase addolorata e per quattro giorni non degnò di una parola Veronica. La cosa venne poi in chiaro: si poté conoscere che proprio nella stessa ora del colloquio, Veronica si trovava nella camera della stessa maestra a parlarle di cose spirituali: “e così si conobbe ch’era stato il demonio” (D. I, 418-419).

Il secondo caso appare ancora più subdolo. Il demonio nuovamente prende le sembianze della Madre maestra per consigliare alla Santa di non aprirsi al confessore. Un giorno ella sentì bussare alla porta della cella e dal modo di bussare le sembrò che fosse la maestra. Appena entrata, Veronica provò una ribellione istintiva, mentre un senso di ribrezzo le serpeggiava nel cuore. La finta maestra iniziò il discorso prendendo le cose molto alla lontana: prometteva e domandava il più rigoroso silenzio, sotto la scusa che si trattava di delicata questione; ostentava vivo interesse per il bene della suddita, mostrando il più sentito rammarico per ciò che avrebbe detto; e venne al nocciolo:

“Mi è arrivato alle orecchie un certo discorso sopra di voi e del vostro confessore; si dice che tra voi e il confessore vi sia amicizia così intrinseca, che coi medesimi discorsi spirituali venite ad avere il vostro intento di peccare. Io vi ho difeso col dire che non è vero niente, ma pensate: la cosa è tanto avanti che domani (e questo era vero) verrà l’avviso e sarà dato lo sfratto al Padre. Tutta la comunità è scandalizzata, e il disonore cadrà su tutta la comunità se non vi mettete rimedio. Vi impongo dunque in virtù di santa ubbidienza che non andiate più a confessarvi, se non nel caso di colpa gravissima, e che non parliate più con nessuno delle cose del vostro interno, né col confessore ordinario, né con lo straordinario e nemmeno con me” (D. I. 409).

            Il discorso demoniaco si presenta in modo untuoso e falsamente veritiero, come se si trattasse di argomento alquanto scabroso e imbarazzante, che richiede attenzione e molta prudenza. Di fatto tocca un punto malizioso e vergognoso, quello della sensualità e del peccato contro il voto di castità. La cosa singolare sta nel modo di parlare che imita bene le raccomandazioni fatte dai responsabili nei confronti dei sudditi con un tono sommesso, pacato e in parte misterioso ma che pur dev’essere svelato con conseguente scandalo pubblico. L’insieme dell’esortazione suscita sospensione di respiro e l’attesa trepidante di quello che potrebbe scatenarsi da simili premesse non certamente benevole.

            Lo scopo che il diavolo intende raggiungere è quello di imporre a Veronica di tacere sulle sue esperienze mistiche per evitare il bene che potrebbero suscitare e diffondere nelle anime. Quei maledetti scritti sono odiati dal demonio e, se fosse possibile, sarebbero da mettere al bando ed essere bruciati. La malignità consiste nel far passare per sani consigli ciò che invece è una depravata distrazione dalla volontà di Dio. Veronica è in conflitto tra due sentimenti. L’uno le causa la riprovazione di ciò che le viene suggerito sia perché contrario a quanto le è stato chiesto per obbedienza sia perché ella subodora l’inganno del nemico; l’altro sentimento la invita alla sottomissione in quanto ritiene l’obbedienza una virtù fondamentale della vita cristiana. Che fare?

Vincendo l’inquietudine che le gravava l’animo, Veronica rispose:

“Non parlerò con nessuno, solo manderò per Monsignor Vescovo. A lui dirò tutto quello di cui ho parlato col confessore; lui sarà il giudice! “lo vi dico e di nuovo vi ridico che non parliate con nessuno-riprese con tono autoritario la falsa maestra -né con il Vescovo, Dio ne guardi se ciò andasse alle sue orecchie! Fate quanto vi ho detto io e vivete posata”.

(D. I, 415).

Ciò detto, il demonio camuffato andò via. Veronica rimase sbalordita e passò la notte in profonda agitazione. Al mattino poté chiarire la cosa: la Madre non era andata in cella sua, né ombra di verità esisteva in tutto il racconto; il diavolo veniva così smascherato. Lo scopo del nemico era manifesto: impedire la direzione spirituale della Santa e metterla in cattiva luce nel monastero, suscitando avversione anche contro la Madre maestra. Di fatto ella ne rimase intimamente ferita e fece fatica a superare le ombre che il maligno aveva addensato nella sua mente:

“Il tentatore mi mise una avversità così grande verso la madre maestra e con il confessore, che non mi fidavo né dell’una né dell’altro: nemmeno con nessuna sorella; benché tanto non potevo parlare, stantecché l’anno del noviziato non si parla con alcuna. L’istesso avevo con la superiora; ma però conoscevo che era tentazione. Così cercavo di vincermi quando potevo, e delle volte dicevo qualche cosa” (D. V, 719).

Il Diario è pieno delle sue lotte con i demoni e delle sue visite e descrizioni dell’inferno, che viene dipinto come “una regione bassa, nera, fetida e piena di urla animalesche e di lampi sinistri”. Accompagnata dai suoi angeli custodi e dalla Madonna, quasi tutti i giorni vede l’inferno in cui si trova una montagna piena di aspidi e basilischi che incatenavano le persone. Ai fianchi della montagna c’era una moltitudine di anime e di demoni intrecciati con catene di fuoco. I demoni tormentavano le anime dei dannati e nel fondo dell’abisso c’era un trono mostruoso. Al centro una sedia formata dai diavoli capi dell’abisso. Satana vi stava seduto sopra in tutto il suo indescrivibile orrore. La visione di Satana costituisce il grande tormento dell’inferno come la visione di Dio causa la delizia del paradiso.

L’inferno è il risultato disastroso di chi rifiuta l’amore di Dio e la purificazione dai peccati e sceglie volutamente di rimanere nello stato di durezza di cuore. Veronica comprende che il peccato conduce alla dannazione, mentre la sofferenza espia le colpe e l’amore unisce a Gesù e porta alla beatitudine eterna. Ella offre un grande contributo al “trionfo dell’amore”. Proprio dalla visione dell’inferno ebbe la percezione esatta e drammatica in cosa consista la perversità del peccato e a quale tremenda condanna esso conduca le creature umane. Da qui ebbe l’impulso di patire per riparare tante cattiverie e poter evitare agli uomini l’inferno, cooperando all’opera redentrice di Cristo. I suoi tormenti dunque vanno incastonati dentro la cornice tragica del peccato e insieme vanno sopportati e ravvivati con l’amore per Gesù e per l’umanità. In questo contesto Veronica accoglie con apertura di cuore le numerose pene disseminate sul suo cammino con l’entusiasmo di chi si rende conto di compiere un prezioso servizio per il bene di tutti.

Il 22 febbraio 1696 ella annota sul Diario:

“La scorsa notte l’ho passata con più sorta di tentazioni, in particolare sopra la fede: di non credere che vi sia altra vita che questa; e mi battevo sopra il non credere nel Santissimo Sacramento; e anche mi tentavano che io non credessi che noi creature avessimo l’anima: e che questa, morto che sia il corpo, abbia da andare in luogo alcuno; e che, per questo poco tempo che mi resta, mi dessi bel tempo e che delle volte mi pigliassi qualche sollievo. Da queste tentazioni cominciarono anche a venire fantasmi visibili. Mi feci animo e dissi loro: O pazzi che siete! Che pretendete da me?.Se venite per aiutarmi a patire, eccomi pronta a tutto. Voi fate quanto vi è permesso da Dio: e io non voglio che la sua santa volontà! E poi, rivolta al mio Signore, così gli dissi:-Mio sommo bene, Gesù mio caro: vostra sono!..Altro non voglio che Voi: in Voi credo, in Voi confido, di me diffido! Mentre così dicevo io al Signore, quegli spiriti infernali fecero così gran strepito, in cella nostra, che mi pareva che ci fosse tutto l’inferno!” (D. I, 531).

            Nelle varie descrizioni Veronica sperimenta ciò che succedeva nell’antichità ai Padri nel deserto, in perfetta consonanza con le loro accanite lotte verso il nemico infernale. Ciò comprova che ella si pone sulle orme della tradizione spirituale della Chiesa e nella fedeltà alla dottrina demonologica sostenuta e professata dall’autorità magisteriale dei concili e dei papi.

            In particolare nel presente racconto, dopo aver delineato le tentazioni circa la fede, che toccano gli aspetti essenziali del credo ecclesiale, ella afferma anche di vedere fantasmi e figure mostruose. Di fronte a tali aggressori si fa animo e scaglia contro di loro le verità professate dalla e nella Chiesa, affinché tornino in se stessi e non pretendano di fare più di quanto è concesso loro dalla volontà divina. Dimostra così di riconoscerli creature inferiori a Dio e anch’esse sottoposte alla sua signoria. Non possiedono un potere assoluto e sono ben delimitati nella sfera delle loro azioni. Giustamente ella non li teme, anzi li accetta se sono strumenti provvidenziali per farle esercitare la volontà e rafforzare la fede. Altrimenti li apostrofa ordinando di allontanarsi; si prende beffa di loro e li schernisce ridendo. In fondo sono esseri meschini, buffoni e deboli, pur volendo apparire altezzosi e impetuosi:

“Alla fine, mi ha incominciato a travagliare con fantasmi di più sorte, in particolare di mia figura; e mi persuadeva, che, per la mia gentilezza (delicatezza), non avrei potuto durare col rigore di vita intrapreso. Qui anche mi ha fatto ridere di questi pensieri che piglia verso di me. Io gli ho detto, che, in quanto a questo, conosco da me quello che posso fare, e sono sicura che io, come io, non potrei muovere un dito, ma che, tutta posta nelle mani di Dio, Esso opera tutto in me, e di Lui mi fido, e tutto si ha da fare per sua gloria, e per adempire la sua santa volontà. Qui voglio stare, e questa sarà sempre la prima in pigliare tutte le mie operazioni; perché tutte hanno ad esser fatte colla volontà di Dio, e col gusto suo. E poi, rivolta al tentatore, gli ho detto: Vattene pure, o tizzone d’inferno. Non li do retta a niente. Sei bugiardo, e porti teco tutti i mali. Però con essi ritorna alle tue stanze d’abisso. P. Confessore, mi creda che, detto che ebbi questo, mi parve di vedere il demonio tutto infuriato; e, se avesse potuto, mi avrebbe tolto la vita. Ma mi fece di nuovo ridere, perché tosto fuggì. Dopo mi quietai un poco, e potei applicare un po’ all’orazione” (D. I, 245).

L’aggressività di Satana si è scatenata contro di lei fino a tentare di ucciderla facendola precipitare per le scale. Una volta fu oggetto di una scarica di sassi, che si conservano ancora nel monastero e sono chiamati i mattoni del diavolo. Il demonio voleva strozzarla, la tentava di fuggire dal convento, di fingersi pazza e, siccome resisteva, la scaraventava per terra causandole molto dolore; la faceva mordere da vari animali feroci, le poneva sporcizia nelle vivande. Insomma una continua persecuzione. Il Signore permetteva tutto ciò perché il tentatore ne avesse scorno peggiore, per dare a lei meriti maggiori, e perché la sua virtù fosse meglio conosciuta ed apprezzata. Lei stessa ne riceveva un vantaggio spirituale per ravvivare la fede, mantenere l’umiltà e accettare le sofferenze per amore del suo Sposo.

3. L’amare e il patire per Gesù quale fonte di gioia

La guerra spietata mossa dal demonio a Veronica ebbe come risultato un amore sempre più profondo per Gesù e per la croce, impastata mirabilmente di amore, obbedienza e unione con Dio.

”Questa notte, dalle cinque ore sino alle 10 ore, ho avuto varie pene e molti contrasti. Il demonio volevami inquietare sopra la mia vita passata; e poi, mi tentava che io facessi un atto risoluto di non volere accettare più patimenti. Ma io ho fatto tutto l’opposto; ho rinnovato le mie proteste, ed ho dato un nuovo consentimento, ché si adempia in me la divina volontà, con esibirmi alle pene, alle croci ed ai tormenti, per puro amore di Dio e per fare la sua volontà ss.ma. L’anima mia si è posta tutta nelle mani di Dio, con aver fatto la rinunzia di tutte le cose transitorie di questa vita” (D. IV, 32).

            Veronica mette in luce il singolare duello che deve esplicare contro l’accanito avversario. Sono posti uno di contro all’altro i due contendenti. Dapprima ella espone le mosse sferrate dal demonio in due attacchi successivi: il primo si avventa direttamente sulla persona antagonista, cercando di colpirla nel modo più vasto, percorrendo perfidamente le tappe più umilianti della sua storia; il secondo assalto più feroce tenta di sgretolare e demolire le armi con cui la nemica si difende e che per il demonio sono spaventosamente impenetrabili e rocciose, cioè le sofferenze.

            Di rimpetto Veronica usa un metodo del tutto inverso: anziché avventarsi contro l’odioso nemico, si trincera dentro le proprie sicurezze e in tal modo lo indispettisce e lo irrita; rinnova la sua totale adesione e obbedienza a Dio; acconsente di accogliere penitenze e sacrifici, insaporendo ogni cosa con l’amore. Ella si pone serenamente e fiduciosamente nelle braccia del Signore. Tale comportamento non solo la difende dagli assalti malvagi, ma la rende così salda e invulnerabile che scatena la stizza dell’avversario, il quale si vede fallito nell’impresa bellica e miseramente sconfitto. Ella ne esce vittoriosa non per la propria validità, ma unicamente per la potenza di Colui a cui si è affidata.

Ne risulta che ella in tutte queste situazioni di lotta infernale permesse da Dio, in cui il demonio si scagliava con tutta la sua rabbia contro di lei, la malediceva e la minacciava di mali e trattamenti peggiori, proseguiva tranquilla nella sua strada. Sapeva che al principe della superbia non vi è miglior modo di rispondere che col disprezzo. Alle volte però, come si è visto, arrivava ad aizzarlo contro di sé per mostrargli che non ne aveva alcun timore, ora ridendosi delle sue maledizioni e schernendolo con i titoli più obbrobriosi.

Nel Diario alla data del 15 Marzo 1696 scrive:

“In questa notte, l’ho passata con più travagli e sono stata, di continuo, in tenebre e sempre con tentazioni: in particolare, sopra il terzo voto e contro la fede. Vi sono stati i fantasmi, ma non visibili. Solo hanno fatto gran rumore, ché mi pareva volessero gettare a terra la nostra cella. A tutto mi sono fatta animo, ed andavo dicendo: Mio Signore, siate benedetto! Eccomi a tutto pronta. Si faccia la vostra volontà! Questa bramo, questa vi chiedo” (D. I, 547).

Sperimenta uno stato di sofferenza estrema che chiama la nuda croce e il puro patire, in corrispondenza a quello che i mistici definiscono “la notte dello spirito” cioè la privazione assoluta di ogni conforto spirituale. Sperimenta anche il sentimento doloroso di essere lontana da Dio e il sentimento acuto dell’abbandono divino. Dall’altro canto prova un desiderio ardente di immergersi in Dio e di stare unita a Lui, mentre avverte l’angoscia di essere sola senza di Lui; sente il bisogno di un possesso definitivo dell’amore e nello stesso tempo Dio si nasconde; viene attratta potentemente verso Dio ed è spinta a cercarlo, ma quando si slancia verso di Lui non trova che vuoto e silenzio, si dibatte nella notte più profonda dello spirito soffrendo il silenzio del cuore. Tuttavia non le mancano momenti di indescrivibile gioia e serenità dell’animo, che l’appagano di tutte le contrarietà. Anzi le fanno capire che ogni altra allegrezza è nulla rispetto alla sua pace interiore:

“In questo mentre mi misi a considerare la pretiosità del patire; andavo, colla mia mente, per il mondo tutto, per vedere se trovavo gioie simili a questa. Ma indarno mi affatigavo; perché non vi è corona, né di papa, né di imperatore, né di re, né di monarca nissuno, a gioie così pregiate, che si possa paragonare alla gioia pretiosa del puro patire” (D. V, 40).

            Le espressioni di Veronica assumono un sapore di straordinaria profondità e di inaudita sorpresa. Non solo le gioie succedono alle pene, come due momenti distinti e distaccati uno dall’altro. Ella arriva ad affermare che il patire stesso si fa portatore di gioia. Una novità assoluta e incredibile. Anzi il patire si identifica con la gioia, che dona al patire una eccellente preziosità. Ha l’ardire di fare un paragone con tutte le felicità vissute nel mondo dalle persone più eccelse e ricche. Eppure ella dichiara che non ne ha trovata alcuna simile alla beatitudine della sofferenza. Ci si chiede quale sia la ragione di una affermazione umanamente così assurda e insieme così decisa e indiscutibile. Come può Veronica azzardare una asserzione di tale portata inverosimile e di esserne così convinta da non ammettere obiezioni di sorta, ma restare tranquilla e imperterrita? Non esiste al mondo una delizia tanto grande come il soffrire.

            Lo sostiene lei ma ne dà anche la spiegazione illuminante:

“In questo mentre, parvemi che il Signore mi desse a conoscere la bellezza di questa gioia. Ma io non la posso paragonare a niente di questa vita, perché tutte le più pregiate gioie che si possono mai trovare, poste con questa, divengono nulla. È tale la sua bellezza, che, godendo; l’anima di avere tal gioia, le pare di godere un paradiso qui in terra; tanto è bella e desiderabile! Basta dire che l’ha formata, l’ha abbellita lo stesso Amore. Anzi è comprata ad un prezzo infinito, e vale più questa che tutti i tesori del mondo tutto. Divengono essi come niente o, per dir meglio, sono come fango. La sua bellezza supera tutte le bellezze dell’universo; la sua grandezza fa divenire ogni cosa un nulla; la sua chiarezza e splendore ci fa vedere che tutti i gusti e contenti di questa vita sono tenebre ed oscurità ben grandi” (D. V, 41).

            Si tratta dell’inno alla gioia del patire nell’amare. Con una incantevole lirica Veronica canta l’elogio della sofferenza contemplandola nello splendore della sua bellezza. Una bellezza che sorpassa qualsiasi altra bellezza creata. E ciò è dovuto alla causa da cui ha origine un tale fulgore: l’Amore l’ha formata e l’ha abbellita. In tali parole Veronica esplode nell’ammirazione estatica di fronte a tanta leggiadria. Non resta altro che fissare lo sguardo su di essa per cogliere gli aspetti più attraenti. L’Amore costituisce la fonte suprema e ineffabile che ha reso il patire così amabile e piacevole. Quell’Amore di Cristo ha trasformato con il sacrificio della croce il soffrire in salvezza. La crocifissione di Gesù rivela l’evento redentore molto prezioso e costoso, che ha avuto il potere e il merito di far risplendere la sofferenza nella luminosità dell’amore.

            Veronica esprime con lirismo il fulcro del mistero salvifico, assommando insieme il dolore con l’amore da cui emana il fascino di una bellezza incomparabile. Teologia, fede, contemplazione e poesia si amalgamano mirabilmente per inneggiare all’Amore di Cristo immolato. Ella ne è totalmente coinvolta e si lascia irradiare per esplodere nell’esclamazione finale di gioia:

“O gioia preziosa! io ti vo’ tenere appresso di me. E nissuno mi stia a nominare più patire; ma si dica e si nomini sempre gioia. E, se per sorte venisse persona alcuna tribolata da V. R., le dia questa nova, che non vi è più il nome di patire, ma che le tribolationi e i travagli si hanno da chiamare gusti e contenti, e si hanno da tenere cari, come gioie pretiosissime. Così sia” (D. V, 41).

            Si giunge così alla conclusione sublime che identifica totalmente il patire con il gioire. Ambedue formano una identità piena, tanto che non si può pensare alla sofferenza senza affermare contemporaneamente l’allegrezza: le tribolazioni e i travagli si devono chiamare gusti e contenti. A questo punto si può dire che l’esperienza veronichiana diventa teoria comprovata e vissuta del patire e dell’amare.

Ammaestramenti questi che fanno comprendere come il patire per amore è uno stato di natura spirituale di altissimo valore, perché rivela il cuore e la vitalità del cristianesimo:

“II patire è un tesoro che in sé serra tutti gli altri tesori; è un mare dal quale si fanno molti fiumi e rivi, per innaffiare tutti gli orti e i giardini di ciascun’anima. Questo patire è un fonte, ma fonte sigillato con l’amore. Che più? E’ un convito nel quale vi sono tutte le sorte di vivande, e tutte acconcie e condite col puro amore. Dunque, il patire si può chiamare banchetto e convito di amore” (D. V, 87).

            Ancora delle pennellate significative e brillanti sulla configurazione del patire. Veronica usa alcune immagini e similitudini che esprimono bene la concezione che ella possiede attorno alla sofferenza, per darne una delucidazione inequivocabile, la quale non ha niente a che fare con forme di masochismo e o di isterismo emotivo. Ella rivela una viva lucidità mentale e insieme una vivace espressività verbale con rilevanti tocchi di acutezza. Il patire è indicato come il tesoro che raccoglie in sé tutti gli altri desideri, in modo da doverlo valorizzare come si conviene e non lasciarsi ingannare dai pregiudizi che esso porta con sé; è come un mare da cui nascono fiumi e ruscelli per portare l’acqua refrigerante ad ogni anima, in quanto dal patire sorgono effetti benefici per la maturazione della propria personalità e sensibilità.

             Tuttavia Veronica precisa, coerentemente il suo modo di vedere, che la sorgente del soffrire non ha una propria validità se non viene irrorata e purificata dall’amore. Proprio l’amare dona al patire il sapore appetitoso che invita alla mensa della vita e della bontà, dove tutti possono rallegrarsi e godere di cibi succulenti, conditi saporosamente dall’amore. Veronica conclude con una frase riassuntiva: il patire è il banchetto e il convito di amore. Sta qui il succo fragrante della sua esperienza mistica e del suo solido pensiero. Lì si concentrano la sua vita e la sua santità.

[1] Laureato in teologia dogmatica al Laterano, Dottore in filosofia ad Urbino. Membro della Pontificia Accademia Teologica.

[2] I brani riportati si riferiscono ai volumi pubblicati e sono citati con la sigla D., il volume I–VII, il numero delle pagine: Fioruccio (a cura di), “Un tesoro nascosto” ossia il Diario di S. Veronica Giuliani, Nuova edizione I-IV, Monastero delle Cappuccine, Città di Castello 1969-1974; Iriarte L.-De Felice A. (a cura di), Diario di S. Veronica Giuliani, V, Monastero delle Cappuccine, Città di Castello 1987; Cittadini Fulvi M.–Iriarte L. (a cura di), Diario di S. Veronica Giuliani, VI, Ed. critica Porziuncola, S. Maria degli Angeli, Assisi 1989; Iriarte L. (a cura di), Diario di S. Veronica Giuliani, VII, Ed. Porziuncola, S. Maria degli Angeli, Assisi 1991. Chi volesse una visione più ampia rimando al mio volume: Il patire e l’amare, Ed. Monastero San Silvestro Abate, Fabriano 2013.

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