San Giovanni Calabria: “zero e miseria” vince il diavolo

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San Giovanni Calabria: “zero e miseria” vince il diavolo

 Relazione del Prof. Alberto Castaldini[1]

Il titolo propostomi per questo intervento da Padre Paolo Carlin sintetizza felicemente l’esperienza umana e sacerdotale di San Giovanni Calabria, giacché la sua vicenda terrena ci conferma che il santo, e potremmo aggiungere: l’uomo e il sacerdote, è colui che fa dell’umiltà il tratto costitutivo della sua vocazione e la cifra principale della sua azione. Questa genuinità dello spirito, accompagnata a un animo sensibile e introspettivo, partecipe dell’altruità, sviluppa una profonda empatia e porta non solo a consolare i sofferenti, ma a farsi concretamente carico del loro dolore, ispirandosi a tal punto a Cristo da completare, giorno dopo giorno, quello che manca ai suoi patimenti “a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Il santo assume così sulla propria carne e imprime nel proprio animo le sofferenze del mondo, sviluppando uno speciale carisma della riparazione, sorgente di innumerevoli grazie. Così ogni sua giornata diviene infine un atto di preghiera vivente.

Don Giovanni Calabria (Verona 1873-1954), santo della Provvidenza e dell’Umiltà, che amava definirsi “zero e miseria”, beatificato nel 1988 e canonizzato nel 1999 da Papa Giovanni Paolo II, figura significativa nella vita ecclesiale italiana della prima metà del Novecento, sino alla fine della sua esistenza terrena fu consapevole che – come scrive san Paolo – “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno”, tanto che “li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8, 28-29). Proprio in ragione della sua conformità a Cristo, molte furono le prove e le sofferenze da lui sopportate in vita, inizialmente contrastato nella vocazione sacerdotale poiché i superiori non lo ritenevano di sufficiente ingegno (possedendo in realtà un’intelligenza intuitiva che nella maturità si manifestò nel fornire risposte profonde e risolutive ai quesiti anche di intellettuali), e che invece si rivelò non solo zelante e ispirato fondatore della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza (1932), come del suo ramo femminile, ma profetico esempio per la Chiesa italiana e universale (“apostolo dalle vedute sconfinate”, lo definì il gesuita p. Domenico Mondrone[2]), stimato da protagonisti della vita ecclesiale del suo tempo, come il beato cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, o san Padre Pio da Pietrelcina; fu inoltre pioniere nel dialogo ecumenico con i cosiddetti fratelli cristiani separati: come lo scrittore anglicano inglese Clive Staples Lewis, il pastore luterano svedese Sune Wiman, il metropolita ortodosso romeno Visarion Puiu. Don Calabria fu anche in speciale comunione fraterna con gli ebrei, che sempre stimò e amò dopo che da bambino aveva assistito alle loro cerimonie di culto nella sinagoga di Verona. Durante la persecuzione dell’ultima guerra mondiale portò loro concreto conforto e il rabbino di Verona, memore di questa vicinanza, partecipò al suo funerale cui concorse l’intera cittadinanza.

La sua multiforme dedizione apostolica, il primato della carità e l’abbandono alla Provvidenza divina, l’intuizione verace e lo slancio che animavano ogni suo gesto, la purezza della sua testimonianza spirituale non potevano perciò che unirlo nelle sofferenze a Cristo, supremo modello della sua missione sacerdotale, perché la strada di Gesù verso la gloria è la stessa dei suoi figli (Rm 8,17) e passa attraverso una porta stretta che non esclude il sacrificio. Di ciò il santo sacerdote veronese fu sempre consapevole. Scrisse Don Calabria che le nostre sofferenze, in unione a quelle di Gesù, impreziosiscono le nostre anime e vivificano le opere di Dio. Eppure, con la sua innata umiltà[3], assimilata nella modesta abitazione natale di Vicolo Disciplina a Verona, nella centralissima Contrada Santi Apostoli, dove vide la luce l’8 ottobre 1873, battezzato il giorno di Ognissanti, figlio di Luigi, calzolaio, e di Angela Foschio, sarta e stiratrice, Don Giovanni, già anziano, chiedeva ai confratelli di pregare affinché potesse comprendere il “dono della sofferenza” (nel maggio del 1930 proprio lui aveva dato inizio alla sezione italiana dell’“Apostolato infermi”). I suoi furono dolori non solo fisici ma soprattutto spirituali, che, nonostante i frutti copiosi della sua Opera, gli cagionarono angoscia e disperazione, sia in ragione del male così diffuso nella società, culminato nelle due guerre mondiali le cui privazioni egli sperimentò personalmente, sia per una misteriosa prova interiore, un’offerta di sé per la riparazione dei peccati[4] che lo accompagnò fin dalla giovinezza, e si perfezionò in modo esplicito e per un misterioso disegno pochi anni prima della morte.[5]

A undici anni si ammalò gravemente, gettando nello sconforto la madre che aveva perso già quattro figli, ma guarì provvidenzialmente dopo essere stato in pericolo di morte. La sua vocazione sacerdotale fu a lungo osteggiata in modo a tratti incomprensibile, forse perché grande sarebbe stato il bene da essa scaturito per il riscatto degli orfani e dei giovani in difficoltà attraverso la Casa Buoni Fanciulli da lui fondata nel 1907. Ma la volontà di Dio non si ferma agli ostacoli umani o spirituali, col tempo sapientamente li aggira, e Giovanni venne infine ordinato nel 1901 dal cardinal Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona. In compenso la sua missione non fu mai disgiunta da un personale calvario. Il cardinale Schuster, che con il sacerdote veronese scambiò – come vedremo – un folto epistolario, ebbe a dire: “Mi pare che in queste sofferenze di Don Calabria ci sia la mano di Dio. Quando vuole adoperare un’anima, la stritola”.[6] Ma se il “servo del Signore” (Is 53,10), cui l’arcivescovo di Milano si riferiva, è strumento della volontà dell’Onnipotente, egli non ne è l’ingiustificata e passiva vittima, in quanto è sì destinatario delle tribolazioni permesse da Dio ma non certo da Lui cagionate, poiché il Padre celeste, fonte primaria dell’amore, desidera solo il bene dei propri figli. Don Calabria fu sempre consapevole che questo era il prezzo per accedere al Regno di Dio (Quaerite primum regnum Dei! fu il motto e impegno suo e dell’Opera, di cui era custode, casante, come ancora oggi si definisce il superiore generale della congregazione). Come ricorda Don Gabriele Amorth “deve essere ben chiaro che il male, il dolore, la morte e l’inferno, il diavolo non sono opera di Dio[7], mentre Satana cerca di convincere l’uomo che Dio non lo ama. Se la sofferenza – affermava perciò cosciente Don Calabria – è “moneta di Dio”, ciò significa solamente che essa può essere elargita a garanzia dei percorsi misteriosi del suo provvidente disegno. Resta il fatto che ogni croce genera anche angoscia, abbandono, esclusione, e negli ultimi anni il santo veronese non temette di affermare che l’ora “terribile” da lui vissuta era “l’ora di Satana”, che induceva a tornare urgentemente al Vangelo nella consapevolezza che l’ora del dolore fisico e spirituale “è anche l’ora di Gesù: è l’ora delle grandi decisioni…Gesù non verrà meno alla sua parola”.[8]

Nonostante le promesse divine, molte ore buie segnarono infatti l’esistenza del santo veronese fino al suo tramonto ed egli ne fu anche scosso, impaurito, nel suo animo così profondamente sensibile che conviveva, alimentandolo, con lo zelo apostolico del fondatore.  Fu lunga la sua “notte oscura”, segnata da stati ansiosi, depressivi e ossessivi, ma Don Calabria trovava la forza di affermare: “Accetto tutto in espiazione dei miei peccati, per l’Opera, per il mondo…”. Alla mente del sacerdote, anziano e fragile, si riaffacciavano forse le parole del suo direttore spirituale, il carmelitano Padre Natale di Gesù del convento veronese degli Scalzi: “Si ricordi che il demonio è uno dei più terribili avversari di Lei, e se potesse precipitarla nell’Adige, sarebbe per lui una grande vittoria e trionfo”.[9] Quindi, egli fu sempre pronto a combattere la sua buona battaglia, sopportandone i colpi violentissimi, rivestito “dell’armatura di Dio” (Ef 6,11). Come san Paolo, Don Calabria comprese di essere stato “afferrato” da Gesù, ma in questa sua chiamata che presentava gioie e dolori non fu un alienato bensì un uomo in costante relazione con Dio e i fratelli, sempre in grado di parlare sinceramente “dei suoi sentimenti profondi, delle sue emozioni, delle sofferenze fisiche e spirituali”, come “del suo corpo, del suo cuore, del suo spirito e della sua coscienza”.[10]

L’antico Avversario di Genesi, lo spirito negatore e distruttore – Padre Natale ne era certo – fu sempre il suo “acerrimo nemico”, poiché Don Giovanni era “tanto amato da Gesù” in quanto “istrumento nelle mani di Dio per compiere opere a bene della Chiesa di Dio”. La purezza di Don Calabria, il profumo della sua santità già in vita (Padre Pio ai fedeli veneti che a lui si rivolgevano nel Gargano consigliava di recarsi dal sacerdote veronese[11]), la genuinità della sua testimonianza scatenavano certamente la furia distruttiva del Maligno, a tal punto che la sua azione persecutoria non gli risparmiò le pene interiori più laceranti, angosciandolo per la temuta inutilità dell’intera sua vita. Come il Curato d’Ars egli non fu esorcista, ma con le sue opere e le sue sofferenze strappò molte anime al diavolo, che in ogni momento “come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8). Come Giobbe, anch’egli levò il suo grido a Dio, soffrendo ingiustamente ma rimanendo fedele nella speranza della consolazione, infine morendo “vecchio e sazio di giorni” (Gb 42,17). Non a caso, il carmelitano p. Cherubino della Vergine del Carmelo, che divenne suo confessore dopo la morte di p. Natale di Gesù, lo paragonò proprio a Giobbe.

Il citato scambio epistolare intercorso tra il beato Ildefonso Schuster, cardinale arcivescovo di Milano, e san Giovanni Calabria, ci rivela non solo la comunanza di intenti pastorali fra questi due uomini di Dio (Schuster ebbe a cuore e promosse la presenza calabriana a Milano nel borgo periferico di Cimiano), ma sottolinea la condivisa consapevolezza verso l’azione del Maligno, soprattutto nell’ultima fase della vita del veronese, segnata da profonda, quasi inconsolabile sofferenza. Don Calabria cercò il conforto spirituale dell’arcivescovo, che condivise con lui un senso di smarrimento, di incertezza sullo stesso futuro della Chiesa, consapevole però che la disperazione è generata dall’inganno diabolico, dal verbo di falsità che ferisce e indebolisce l’animo dell’uomo.[12] E Schuster non temeva di confidare al sacerdote veronese le sue timorose fragilità, anche nei confronti dell’azione di Satana e del “suo mondo”[13], nel solco di quella humilitas che gli derivava dalla formazione benedettina (Regula Sancti Benedicti VII) ma che fu anche il motto di un suo illustre predecessore sulla cattedra ambrosiana: San Carlo Borromeo. Non fu solo stima amicale a unirli ma anche partecipazione alla passione del Signore, come esorta l’apostolo Paolo, in anni in cui entrambi vedevano maturare “l’ora di Satana” (complice la complessa situazione geopolitica) e, nel contempo, “l’ora di Gesù” per la divina volontà di purificare il presente e il futuro[14]. Schuster ribadì spesso al suo corrispondente che l’unica arma efficace contro il demonio è la santità[15], che Satana “non potrà essere vinto che con armi soprannaturali. Egli è intangibile a tutto il resto. Ha paura solo della santità della Chiesa”[16]. Soprende la sensibilissima attenzione del porporato al presbitero e alle sue sofferenze, tanto che l’arcivescovo gli consigliò di indossare la medaglia di san Benedetto.[17] Attenzione umana così significata da Don Calabria in un appunto scritto con mano malferma e quasi cieco: “Nella mia croce come sento la predilezione di Gesù per Lei. Per questo Satana freme”.[18] L’anno successivo Don Giovanni confiderà al card. Schuster che dopo avergli spedito una lettera ebbe “grandi prove fisiche e spirituali”, ma a un certo punto gli parve di udire una voce dire “basta per ora”, cui seguirono pace e serenità interiori. Un concomitante dettaglio, il primo, molto significativo per cogliere le eventuali strategie vessatorie del Nemico.[19]

La desolazione morale, la notte oscura dell’anima, una melanconia infinita, rivelarono i tratti della persecuzione spirituale protrattasi fino agli ultimi giorni terreni di Don Calabria, allorché una serenità interiore lo pervase a tal punto da indurlo a offrire la sua vita per la guarigione di Papa Pio XII gravemente ammalato (e ricordiamo per inciso come anche a Schuster stesse a cuore la salute del Pontefice, e che l’arcivescovo precedette nella morte Don Calabria, spirando il 30 agosto del 1954).[20] I medici e i collaboratori di Don Calabria testimoniano come il sacerdote soffrisse nella persuasione di aver commesso gravi peccati, di essere lontano dal pentimento, ritenendosi perciò ancor più colpevole e meritevole di castigo. A ciò si aggiungeva anche la frequente impossibilità a pregare, con la mente deturpata da pensieri avversi al Signore e alla fede, come nel cosiddetto “delirio di colpa”, grave stato di melanconia che tormenta le anime, spesso le più elette, tanto da far supporre l’azione straordinaria di uno spirito infernale. Come scrisse il demonologo mons. Corrado Balducci, questa condizione determina “la persuasione di aver commesso gravi peccati e di non potersene pentire, la certezza di non venire perdonato da Dio e della evidente dannazione eterna, la conseguente impossibilità per l’individuo di pregare, comunicarsi […]”.[21] Non sorprende il fatto che in questi casi la mente della persona (anche del sacerdote) può essere angustiata persino da imprecazioni blasfeme, come avvenne per Don Calabria. Non per caso, Don Gabriele Amorth, chiedendo a Padre Candido Amantini che nome avrebbe dato al demonio, si sentì rispondere: “Il suo nome è bestemmia”.

***

Veniamo dunque a illustrare la vicenda sotto il profilo fenomenologico. Don Giovanni Calabria patì duramente come molti altri santi. Tornano alla mente episodi della vita del Santo Curato d’Ars o di Padre Pio, di Santa Veronica Giuliani o di Santa Mariam Baouardy, ma le esperienze vissute dal sacerdote veronese sono forse assimilabili a quelle di Santa Gemma Galgani (1878-1903), la giovane passionista lucchese che abbracciò la croce assegnando alla propria esistenza un significato reale che mutasse il dolore sofferto nell’amore assoluto e incondizionato per Cristo. Non si trattò in entrambi di una conformazione ideale, ma di un patire concreto, che comprendeva pesantissime vessazioni spirituali e fisiche, culminanti in un’ossessione dello spirito che spingeva al dubbio insanabile, al senso di fallimento, alla disperazione, accompagnando Gesù in un doloroso Getsemani quotidiano al punto di superare persino il confine dell’insanabile smarrimento, sperimentando l’angoscia del non-ritorno, pur rammentando in ogni caso che nella buona battaglia il “principio fondamentale della vittoria su Satana è la croce di Cristo per la potenza dello Spirito e l’intercessione della Madonna”.[22]

Nel corso del processo canonico per il riconoscimento delle virtù di Gemma Galgani, la zia Cecilia Giannini descrisse in modo efficace le vessazioni diaboliche cui fu sottoposta la giovane lucchese, e in esse ravvisiamo forte analogie con quanto ebbe a sopportare Don Calabria. La zia di Gemma raccontò che gli spiriti infernali apparivano alla giovane sotto le sembianze di cani, di gatti, di figure umane dalla pelle scura. Mentre la stessa Gemma si trovava in casa, il diavolo le si manifestò minaccioso sotto l’aspetto di un giovane che aveva lavorato come garzone nella farmacia paterna, ma con il quale lei non aveva mai parlato. Eppure quel ragazzo, affermarono i parenti interpellati da Cecilia, non si era mai recato in casa loro. Una religiosa, con riferimento al periodo in cui Gemma si trovava presso le suore Mantellate, descrisse nella sua deposizione le pesanti vessazioni da lei subìte. La religiosa parlò di “angustie di spirito”, “terrori, apparizioni e colpi”, violente percosse fisiche. I testimoni, in altre deposizioni, affermarono come Gemma fosse spesso dissuasa dal Maligno dall’accostarsi ai sacramenti e indotta a proferire espressioni avverse al sacro.[23]

La testimonianza di Santa Gemma può pertanto essere accostata a quella di San Giovanni Calabria (peraltro si vedrà come un filo passionista unisca le due figure). Ci aiuta a farlo il filosofo e teologo Cornelio Fabro, autore di un denso saggio sulla giovane lucchese. Un realismo costante attraversa la sperimentazione della sofferenza in Gemma. Lo stesso lo possiamo cogliere in Don Calabria. Esso, ha scritto Fabro, è nella sua crudezza tale “da porre problemi gravi di teologia”, ai quali, almeno sotto il profilo “esistenziale”, non è facile dare una risposta.[24] Possiamo in tal senso cogliere una specularità tra le sofferenze di Gemma, quella del sacerdote veronese e la Passione di Cristo, in cui però il soprannaturale, sperimentato da una creatura umana e non da Dio che si è fatto carne, è – scrive Fabro – “ancor più doloroso”.[25] Le vessazioni cui fu sottoposto Don Calabria non furono accompagnate come nel caso della santa lucchese da locuzioni con Gesù, che consolarono la giovane nei momenti di maggiore travaglio. Ma il rapporto di Don Calabria con Cristo non fu meno intenso per il tramite sacramentale dell’Eucarestia, nella sua condizione sacerdotale (tanto che l’azione vessatoria nei suoi confronti era diretta ad impedirgli di celebrare la Messa). Singolare in ambedue fu l’apparizione del Maligno sotto le sembianze di un giovane, di bell’aspetto ma con il viso contratto in un’espressione corrotta (in questo caso – si vedrà – fu testimone dell’evento un fratello coadiutore che dormiva in una stanza accanto al letto del sacerdote), ed esprimente parole di minaccia, sfida, scoraggiamento.[26]

La vessazione in entrambi i casi, allorché intaccava l’esercizio della libertà interiore sul piano psicologico, con un grave riflesso nella prostrazione fisica, preparò il terreno a un’ossessione pesante (altrimenti definibile vessazione demoniaca mentale o interna) che si manifestava come premessa o financo anticamera della possessione, giungendo sulla sua soglia, ma che, ad avviso di Fabro, in Gemma, e per quanto ci consta anche in Don Calabria, non ha mai intaccato la piena e duratura unione della libertà interiore con Dio[27], quantunque culminando in pensieri e gesti di disperazione oltre che in moti verbali di avversione al sacro.[28] Tutto ciò ci conferma come la “presenza tenebrosa del Male”[29] non impedisca una misteriosa cooperazione delle anime al piano di salvezza, pur generando eventuali perplessità sul prezzo di tale sofferenza (come fa intendere Fabro, pur profondo conoscitore della vicenda esistenziale di Kierkegaard). Ma il Dio vivente è ineffabile e la sua trascendenza calata nell’immanenza non ci rivela sempre chiaramente l’economia della sua strategia salvifica. Ogni spiegazione diviene in tal senso impossibile alla mente umana e ci riconduce al tema dell’umiltà creaturale, della semplicità. La semplicità d’animo di Don Calabria, che coesisteva con la progettualità profetica del fondatore, dell’infanticabile costruttore di opere, rappresentava un modello di vita per quanti lo conoscevano, e si accompagnava a un cuore introspettivo che si esprimeva nella relazione col prossimo. Questo atteggiamento, come in altri santi, perfezionava una profonda empatia che sfociava nel comune soffrire, conformandosi a Cristo nell’atto della riparazione, camminando lungo quel percorso che conduce alla gloria futura ma che per tutti passa inevitabilmente dal Golgota.[30] Don Calabria fece proprio un carico di sofferenza intimamente lacerante che giunse nei momenti di maggiore disperazione a offuscare persino quella prospettiva d’eternità che si colloca al centro delle promesse divine per l’uomo.

L’aneddotica calabriana riporta molti episodi in cui il confine tra il mondo spirituale e la dimensione terrena appare labile. Anche la documentazione del processo canonico, che elevò il prete veronese agli altari, ne reca puntuale testimonianza, a conferma di come – pur nella sofferenza – in Don Calabria rimanesse la vigilante responsabilità verso le macchinazioni del Maligno (2Cor 2,11) nella fedele adesione a Gesù Cristo.

Allorché all’avvio del suo ministero fu vicario cooperatore a Santo Stefano, antica chiesa di Verona nei pressi dell’Adige, nella casa in cui viveva con la madre e la nipote, dopo un periodo di iniziale tranquillità, seguirono inspiegabili fenomeni fisici. Oggetti e mobili si muovevano da soli, il campanello della porta non dava tregua senza che nessuno lo toccasse e invano si cercò di fissarne il tirante. Lo si avvolse persino con degli stracci, ma fu inutile. Testimoni oculari di questi eventi furono notabili cittadini come il marchese Da Lisca, il prof. Grancelli e Don Pietro Scapini, professore di matematica al Seminario. Anche mons. Luigi Peloso, vicario generale della diocesi, che abitava nei pressi, udì quegli strani rumori e frastuoni. Il parroco di Santo Stefano cercò di bloccare la corda metallica del campanello, avvolgendosi le mani con delle pezze. Mollò la presa prima che la corda gli ferisse i palmi. Una sera, alla presenza di tue testimoni incuriositi da quei fatti, il tavolo al quale stavano improvvisamente si mosse, e la sveglia sul comodino accanto al letto del sacerdote, si spostò. Si udirono in casa forti rumori come di ghiaia scaricata da un carro, di sassi che rotolano, di sonori colpi di martello sull’incudine. Anche Padre Natale di Gesù volle assistere ai fenomeni nella casa di Vicolo Fontanelle. Essi durarono alcuni mesi per poi cessare del tutto.[31] Sembrò trattarsi di un’infestazione locale, l’evento per cui in un luogo abitato o disabitato che sia, si verificano strani e ripetuti fenomeni come suoni, rumori, odori, telecinesi.[32] Differente è, com’è noto, il caso dei disturbi esterni e della vessazione, condizioni che coinvolsero santi come Caterina da Siena, Padre Pio da Pietrelcina (e lo stesso Don Calabria), da intendersi come molestie, fisiche o interiori, che mai si sostituiscono, pur pregiudicandole, alle capacità intellettive e coscienti della persona, recando però disturbo e sofferenza alle anime. Ogni manifestazione di questo tipo, in realtà correlata nelle distinte fenomenologie, è parimenti diretta a contrastare la bontà delle persone e il loro amore per Dio.[33]

Pochi anni dopo i fatti di Santo Stefano, quando l’Opera dei Buoni Fanciulli, grazie alla generosità del conte Francesco Perez, era già stata avviata e il progetto iniziava a dare i frutti sperati, ecco che l’ansia, lo scoraggiamento, iniziarono a tormentare Don Calabria. Padre Natale di Gesù in una lettera del 21 settembre 1913 gli scrisse: “Per obbedienza poi Le comando e Le impongo di mettersi in pace, quieto e tranquillo e tutta la sua responsabilità, tutti i suoi peccati, lasci tutto a carico della mia coscienza, perché io devo rispondere della Sua anima dinanzi a Dio. Per carità, non la dia vinta al demonio…”. Ma notte e giorno non c’era pace per il giovane prete. Notti lunghissime, disperanti, l’impossibilità di raccogliersi nella preghiera, di lavorare per la Casa dell’Opera. Il 30 gennaio di quello stesso anno il fedele confessore aveva osservato in una lettera: “Si ricordi bene: ogni volta che si assenta da codesta Casa senza una giusta ragione e che non sia conforme alla Divina Volontà, è una vittoria per il nostro nemico Satana, il quale poi se ne ride sgangheratamente”.[34] E in una missiva del 1914 p. Natale significò al presbitero la ragione ultima delle sue sofferenze: “Non dimentichi mai che S. Zeno in Monte [sede dell’Opera, ndr] è il suo Calvario, sopra il quale Gesù lo vuole immolato, a gloria Sua, a salute di tante anime, di milioni di anime, e per la santificazione dell’anima della Reverenza Vostra”.[35] Queste parole si sarebbero rivelate profetiche decenni più tardi. Padre Natale ben svolgeva nel suo ruolo di direttore spirituale uno dei mandati che Cristo stesso aveva ascritto al sacerdozio, e cioè di consentire agli uomini di resistere al male fino a sconfiggerlo.[36]

In una notte del 1934 Don Calabria si rifugiò nel Convento degli Scalzi, presso P. Natale di Gesù, per trovare un po’ di pace dagli attacchi delle tenebre. Ciò si era verificato già agli inizi dell’Opera, ma il suo confessore quella volta lo aveva rimandato a casa. Dopo averlo ospitato in una delle celle, i carmelitani udirono nella quiete notturna rumori e gemiti. Entrati nella stanza trovarono il prete tremante e pieno di lividi, tanto da indurli a benedirlo. L’episodio si ripeté quella stessa notte e la benedizione fu rinnovata. Poi Don Calabria si addormentò.[37]

Le vessazioni fisiche di Don Calabria, così simili a quelle che patì Padre Pio, ci sorprendono, ma nello stesso tempo ci inducono a quella cautela che non è espressione di incredulità, ma di ponderata attenzione verso analoghi episodi straordinari, indizi di una vita intensamente spirituale, di una sensibilità certamente fuori dall’ordinario[38], nella consapevolezza che nulla, nemmeno il più feroce persecutore, “potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 39), giacché – per citare Papa Leone Magno –  “colui che è in noi è più forte di colui che è contro di noi, il nostro vigore è in lui, nel confidare nella sua forza. Per questo infatti il Signore ha voluto subire l’attacco del tentatore: per istruirci con il suo esempio e insieme difenderci con il suo aiuto” (Leo I, Homilia XXXIX, 3, ed. T. Mariucci).[39]

Una testimonianza contenuta nella Positio parrebbe indicare in Don Calabria anche la presenza di uno stato dissociativo grave. Racconta fratel Oliviero Prospero: “Ad un certo punto si divincolava, gesticolava, digrignava i denti, faceva boccacce”. Il fratello coadiutore cercava di portargli conforto, rinfrescando il viso e le mani infiammate dal calore con una pezzuola bagnata. Don Calabria in dialetto e con una voce alterata allora esclamava: “Cópelo (uccidilo, ndr) ‘sto prete, questo saco de carbon, questo assassino che mi ruba tante anime. Quando è che muore? Brucialo!”. Passata qualche ora Don Calabria tornava quieto, e talvolta capitava che predicesse l’ora in cui sarebbero cessati questi fenomeni. Diceva a fr. Prospero: “Non spaventarti, non è mica don Giovanni che parla. È un altro che parla per la mia bocca. Porta pazienza ancora fino alle sei”.[40] E a quell’ora tutto finiva. Questi eventi si verificarono a Villa Ugolini, sulle Torricelle – le colline alle spalle di Verona – dove il sacerdote visse negli anni della Prima guerra mondiale.[41] In un’altra occasione preannunciò un prossimo attacco, ingiungendo al confratello di non interloquire in alcun modo con quella presenza. Verificatosi quanto previsto, quella voce che lo pervadeva chiese perentoria: “Cosa fa Don Calabria? Mi porta via tanti giovani…sarebbero tutti miei”.[42] Consapevole di queste improvvise e pesanti vessazioni, il sacerdote ripeteva spesso giaculatorie e invocazioni.

Nella primavera del 1936, mentre Don Calabria si trovava a Casa Nazareth, sulle Torricelle, permise a un collaboratore, fratel Bisello, di dormire in una stanza attigua alla sua per verificare di persona quali fenomeni straordinari, sonori e visivi, si verificassero nel corso delle sue notti tormentate. Il fratello coadiutore accettò quasi per celia ma uscì scosso da quell’esperienza fatta di una presenza visibile di giovane dal bellissimo aspetto, vestito di scuro, presenza fisica ma misteriosa, beffarda nell’espressione rivolta al sacerdote che stava riposando. Quella figura si abbassò in segno di sfida, con le mani appoggiate sul guanciale, al volto di Don Giovanni, e si accomiatò con una sonora risata dissolvendosi nel nulla attraverso la parete della stanza.[43] Di fenomeni apparentemente inspiegabili, ma noti alla letteratura demonologica, fu testimone diretta anche una delle religiose della casa dell’Opera a San Pancrazio, rione nei pressi della città, la quale, ricevuta una telefonata da una voce minacciosa ma simile a quella del Fondatore, pochi istanti dopo trovò alla porta Don Calabria in visita che ascoltò profondamente scosso il racconto. Il sacerdote all’udire i dettagli si turbò in viso, e fu persino colto da un tremito, accasciandosi e chiedendo aiuto al Signore.[44]

Pare di scorgere in tutte queste prove il “pungiglione nella carne” evocato da san Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (12,7), che lo tormentò per non indurlo in superbia. Tali gravi vessazioni, culminanti come già detto in pensieri ossessivi[45] e fenomeni talora dissociativi, di profonda prostrazione psicologica, non furono comunque in grado di minare totalmente, in modo continuato e prolungato, le basi della volontà di Don Calabria[46], nemmeno quando gli assalti lo colpivano nel corso della Messa a tal punto da indurlo a sospenderla per poi riprenderla. Nel contempo, e la Positio lo attesta, nella sua emotività “potevano determinarsi, al di fuori delle intenzioni di don Giovanni, manifestazioni contrarie alla sua coscienza» (Positio 2b, p. 405). Che esse possano essere culminate in uno sdoppiamento temporaneo della personalità, in quello che si definisce momento della crisi nella possessione per l’azione straordinaria del maligno, va dimostrato, giacché “non necessariamente chi ha vessazioni od ossessioni demoniache è anche posseduto”.[47] La vicenda calabriana presenta a tratti questa ambiguità.[48]

Negli anni della vecchiaia si fece più profondo e radicato il senso di disperazione e abbandono nell’anziano sacerdote: “Non credo più a niente…ho le mani vuote…sono zero e miseria…cosa vuole Gesù da me?”. Egli inoltre lamentava che un “muro di divisione” lo separava da Cristo, tanto da credere di essere da Lui rifiutato per sempre, senza alcuna speranza. “Dio el me leva la presenza”, affermava sconsolato Don Calabria nel suo amato dialetto. L’inganno operava sull’umore e le ideazioni più fosche lo affliggevano, facendogli paventare lo smarrimento della ragione. Ma la vicinanza delle anime, la comunione dei santi lo confortavano: di ciò egli rimase sempre consapevole. Che Don Calabria abbia sperimentato tutto ciò per così molti anni non deve sorprendere, perché il dato della sofferenza umana per causa del Maligno è parte dell’annuncio cristiano, tanto che – come ha scritto Don Renzo Lavatori – “non si può togliere tale aspetto dal vangelo, senza, con questo, cambiare il senso dell’essere e dell’opera di Cristo”.[49] Gli esorcismi operati da Gesù e descritti dagli evangelisti non costituiscono un racconto simbolico, ma una battaglia personale, tanto che il Redentore ordina ai demoni di rivelare il loro nome, dopo che loro hanno osato fare il suo. Il nome nella Scrittura ha, come sappiamo, un significato profondo, che tocca l’essenza della persona. Un episodio colpisce in tal senso. Don Calabria un giorno rivelò che uno dei suoi tentatori si chiamava Asmodeo, confermando quanto riporta la letteratura demonologica in proposito.[50]

Non si deve però considerare che Don Calabria attribuisse con facilità queste prove all’azione del demonio. Uomo e prete di antica quanto solida formazione, ragionava e si esprimeva con innato discernimento, e da queste esperienze sapeva trarre ammaestramenti che condivideva per il bene delle anime, affinché la sua palestra personale potesse irrobustire i fratelli. Per questo affermava che “il demonio tenta in modo speciale con lo scoraggiamento”, ma che proprio per questo occorreva farsi santi a suo dispetto.[51] Ciò non significa demonizzare ogni fenomeno incomprensibile che coinvolge l’uomo (e che la scienza potrebbe spiegare), ma raccomandare criterio nel giudizio, non escludendo nel contempo le indicazioni di quella sensibilità spirituale che proviene solo dall’esercizio assiduo della vita cristiana e dalla pratica della preghiera. Padre Candido Amantini dal canto suo osservò: “noi non neghiamo minimamente i progressi della scienza; ma è contro la realtà, da noi continuamente sperimentata, illudersi che la scienza possa spiegare tutto e voler ridurre ogni male alle sole cause naturali”.[52]

Dunque, nulla di sorprendentemente “paranormale” nella vita del santo prete veronese, piuttosto molto di autenticamente spirituale e perciò non sempre spiegabile con categorie umane, ma comprensibile con quelle evangeliche e teologiche o grazie a metafore efficaci perché imbevute di quella saggezza popolare che Don Giovanni Calabria aveva respirato alla scuola domestica di mamma Angela: “Satana è in catena – amava dire il nostro santo – ma bisogna stare attenti, perché la catena è lunga”.[53] Don Calabria, osservando e benedicendo come soleva fare al termine del giorno la sua città dal colle di San Zeno in Monte, era pienamente consapevole come quella catena fosse in grado di imprigionare il mondo intero e con sensibilità escatologica visse le prove più tragiche dell’umanità nel Novecento. Uno scenario questo che viene solennemente riaffermato dai documenti del Concilio Vaticano II: “Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio” (Cost. Gaudium et Spes, 37).

Tutte queste prove rientrarono comunque in un progetto divino a cui il santo veronese aveva più volte aderito consapevole. Sin dai primi anni di ministero Don Calabria – come ha scritto Don Luciano Squizzato – ebbe del suo sacerdozio una precisa concezione, quella del sacerdos alter Christus, ovvero a suo avviso il sacerdote doveva offrirsi come vittima perché il Signore è per lui “eredità” e “calice”.[54] Giovane prete, egli si offrì da subito come vittima per la crescita dell’Opera, da poco fondata e nella quale aveva infuso tutto il suo zelo, intendendo questa offerta non come qualcosa di temporaneo ma come una scelta definitiva. Il 27 novembre 1907, il giorno seguente all’apertura della prima “Casa Buoni Fanciulli” nell’antico borgo di San Giovanni in Valle, Don Calabria scrisse in chiusura a una lettera indirizzata all’amico Don Pio Vesentini: “Prega perché possa amare il patire”. Naturalmente l’oblazione – che verrà ripetuta nel corso degli anni[55] – implicava una conformazione radicale, financo una identificazione con il modello supremo della vittima, e la conseguente partecipazione al disegno di redenzione salvifica. Il prezzo non poteva che essere elevato: il Golgota personale di Don Calabria fu soprattutto la notte oscura iniziata nel 1949 e conclusasi nell’anno della morte del santo, il 1954. Nel suo diario, il 12 luglio 1950, nel pieno di quella quotidiana sofferenza – come ricorda Don Luigi Piovan, postulatore della Congregazione –, l’anziano sacerdote ribadì la sua offerta personale: “Io, povero ed ultimo servo, da alcuni mesi ho sofferto e soffro ciò che mente umana, così mi pare, non possa capire. […] Offro la mia povera anima alla divina misericordia”.[56]

Squizzato ha sviluppato un raffronto tra l’esperienza calabriana e quella descritta con vertici di mistico afflato nonché di razionale consapevolezza, da san Giovanni della Croce (carmelitano come P. Natale di Gesù). Il quadro di sofferenze interiori che le testimonianze, rese nel processo canonico, delineano è dettagliato, confermando certe pagine del mistico spagnolo: tentazioni contro la fede, contro la speranza, prove cagionate dalla calunnia degli uomini o dall’incomprensione del mondo. Don Calabria, l’abbiamo già accennato, sperimentò anche la tentazione della bestemmia, come confidò al suo successore Don Luigi Pedrollo nel giorno dell’Addolorata del 1950.[57] Tale ossessione lo tormentò sino alla fine della sua esistenza terrena, assieme a un conseguente senso di colpa e di oppressione della coscienza che non temeva di rivelare ai suoi collaboratori con atto di estrema umiltà: virtù quest’ultima avversata da Satana che predilige la debolezza dei superbi. Dello spirito di bestemmia e di smarrimento parla anche san Giovanni della Croce, fornendoci un resoconto degli innumerevoli tormenti operati dal Maligno.[58]

Nell’ultima annotazione sul suo diario, il 29 maggio 1954, sei mesi prima della morte causata da emorragia cerebrale, Don Calabria ribadì la continua lotta interiore di fronte all’instancabile e pervicace azione diabolica: “Ora sono alla fine. Satana mi vuole nello scoraggiamento e miseria”. Nondimeno il vecchio sacerdote si affidava alla divina misericordia. Nel febbraio di quello stesso anno mariano, Don Pedrollo aveva registrato il suo smarrimento e la disperazione per l’indifferenza avvertita di fronte alla Messa: “Mi pare di essere perduto, sulla porta dell’Inferno!”.[59]

Nel santo veronese non venne meno la cognizione che tutto quanto gli accadeva si collocava nella sequela di Cristo, quale intima offerta di sé per il suo piano redentivo e in opposizione al suo ministero. Proprio per la sua esperienza personale, a un prete conterraneo, il venerabile Don Giovanni Ciresola, suo figlio spirituale che aveva gettato le basi del Cenacolo della Carità, raccomandava perseveranza di fronte alle molte difficoltà patite perché gli ostacoli frapposti dal demonio erano il segno che l’opera era voluta dal Cielo. Il vicario Don Pedrollo raccolse questa considerazione del Fondatore:

 

Il diavolo freme, non la vuole quest’Opera…con Gesù siamo onnipotenti contro mille satana…si vede tolta una grande preda…l’ha tanto contro questo povero prete…dopo i tormenti della notte, satana freme…satana è furibondo… umiltà, preghiera e confidenza in Dio mi animano…il nemico si oppone a quello che domanda Gesù.[60]

 

Nonostante ciò in Don Calabria c’era il desiderio di essere aiutato, supportato da “uomini di Dio”, da quelli che lui stesso chiamava “angeli del conforto”. Abbiamo già visto la vicinanza spirituale del card. Schuster. Agli inizi degli anni Cinquanta le sofferenze in lui si acuirono a tal punto che attraverso un medico di fiducia chiese aiuto a Padre Pio da Pietrelcina, il quale assicurò che avrebbe pregato “con tutta l’anima” per il prete veronese e per il suo dottore aggiungendo però che Don Calabria era giunto, “vicino al Signore”, “sulla via della grazia”, a tali altezze difficilmente raggiungibili dalla scienza medica.[61] Ad analoghe conclusioni giunse un illustre clinico che lo ebbe in cura, il prof. Cherubino Trabucchi, direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Verona, il quale diasgnosticò una “melanconia con associata una psiconevrosi ossessiva”, allorché nella testimonianza resa nella testimonianza per la Positio definì Don Calabria “un martire dell’amore attraverso una sofferenza tragica di ordine psichico, potenziata spiritualmente”.[62] Trabucchi, nella sua testimonianza resa al processo canonico, osservò che in Don Calabria non riteneva “giustificate” le “drastiche cure, e ormonali e di elettroshock che gli furono applicate” e che mai vide soffrire un paziente come lui, in quanto – continuò – “i mali del mondo e soprattutto il peccato del mondo lo accasciavano tremendamente e lo facevano soffrire indicibilmente”.[63] Pertanto, affermare, com’è accaduto anche di recente, che il santo veronese fosse affetto sostanzialmente da episodio depressivo maggiore e da nevrosi ossessiva, cui sarebbe stata di beneficio la terapia elettroconvulsivante, denota forse una prospettiva limitata sia della vicenda personale di Don Calabria, sia della stessa dimensione umana nella sua complessità antropologica.

Nella vicenda personale di Don Calabria si riscontrano i sintomi della depressione maggiore, con un persistente senso di colpa che generava autorecriminazioni di tipo morale e spirituale, con persistenti ideazioni ossessive che lo prostravano. Ma i sintomi non sembravano risolversi con le terapie, anzi parevano peggiorare, mentre il conforto della preghiera come della relazione/direzione spirituale ne attutiva gli effetti, sollevandolo temporaneamente. Si manifestavano inoltre i segni di un disturbo ossessivo, caratterizzato dalla “invasione di pensieri e desideri negativi e peccaminosi, sentimenti di stanchezza psichica, sfiducia, scoraggiamento e perfino disperazione […]”:  una condizione di sofferenza che genera un senso di fallimento totale di sé, arrivando a includere impulsi autodistruttivi e al suicidio. L’ambito dei temi nella ossessione di origine demoniaca è solitamente concentrato nella dimensione della vita spirituale: blocco della preghiera e improvvisa avversione al sacro (oggetti, pratiche devozionali).[64]  Nella Positio si può ritrovare manifestazione di tutti questi sintomi[65]. Che l’azione straordinaria del Maligno abbia perciò  trovato una breccia nella spiccata sensibilità, come nella sofferente fragilità, di Don Calabria («Diceva di se stesso di essere “una pianta sensitiva” che sente tutto»[66]) è più che probabile[67], ma appare semplicistico ricondurre a fattori esclusivamente organici o psichici episodi dolorosi così ricorrenti e radicati, nonché avvalorarne il loro rimedio attraverso terapie invasive.[68] All’indagine scientifica – le parole del prof. Trabucchi lo confermano – non è possibile stabilire con argomentazioni teorico-empiriche che le ossessioni o le possessioni sono, ad esempio, problemi di scissione o proiezione. Essa può certamente fare luce, indagando, su queste fenomenologie, ma non può spiegarle in modo definitivo o generalizzato. La soggettività del caso, nella sua complessità interiorizzata, costituisce e resta un dato centrale.[69]

Concludendo, lungo la sofferenza di ogni uomo si snoda un sentiero di purificazione che introduce a una piena dimensione di grazia. Un vissuto come quello calabriano sotto il profilo teologico rappresenta una sintesi mirabile di dimensione antropologica, psicologia umana e tensione mistica. Esso costituisce un paradigma umano, creaturale, prima che un caso clinico e dovrebbe essere interpretato anche in questa arricchente prospettiva. Persino il Vangelo ci attesta lo stato di melanconia che assalì gli apostoli alla vigilia della Passione, esponendoli all’influsso dell’Iniquo, cui seguì però immediata l’esortazione liberatoria di Gesù: «Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”» (Lc 22, 45-46).

La sofferente e nel contempo gioiosa santità di Don Giovanni[70] (in vita ebbe sì a soffrire, ma di lui si ricorda tra i fedeli il spontaneo sorriso di intima autenticità e l’arguzia nelle espressioni) va riconosciuta anche e soprattutto nella sua dedizione paterna verso l’uomo povero, assetato di Dio e da Lui chiamato, il tutto svolto in quella piena consapevolezza della quale il Maligno è acerrimo nemico. Egli stesso ammonì che “il nemico si oppone a quello che domanda Gesù”, e “se ne ride dei nostri piani e delle nostre industrie separate dalla santità”, rimanendo consapevole che “il grande conduttore della grazia di Dio è il dolore”.[71] Negli ultimi anni della sua esistenza, a partire dal 1947, il santo ricevette una serie di lettere confortanti scritte da P. Adalberto Cerusico, un religioso passionista a conoscenza del suo stato, simili nello stile a quelle di P. Natale di Gesù, morto nel 1941. Una delle missive così recitava, spronandolo: “tutto ciò che l’opprime, sia che venga dai demoni, dagli uomini, dal Cielo: tutto è opera dell’Amore. Amore di Dio, Amore di Maria, per un disegno di amore salvifico, a gloria di Dio”.[72] Padre Cerusico visitò di persona Don Calabria solo nel settembre del 1954, dopo essere stato a san Giovanni Rotondo da Padre Pio, il quale in quell’occasione gli disse che le sofferenze del prete veronese presto sarebbero cessate e che avrebbe ricevuto consolazione.[73] Don Calabria morì il 4 dicembre di quello stesso anno, ultimo primo sabato del mese dell’Anno Mariano.[74]

Si è detto come Don Calabria vivesse queste esperienze fuori dall’ordinario con grande sofferenza, ma come nel contempo conservasse il necessario discernimento verso ogni fenomeno soprasensibile di natura religiosa. Egli visse un’epoca segnata da due conflitti mondiali con immense rovine, animata da grandi aspettative dopo i molti patimenti, e caratterizzata da frequenti episodi di misticismo. A Verona nell’immediato secondo dopoguerra si segnalarono ripetuti fenomeni mistici che Don Calabria osservò con scetticismo, tanto da dire: “trucco, isterismo e il demonio concorrono bene spesso in questi casi di pseudomisticismo e il demonio lavora sovente sulla povera natura malata”. [75] Sulla “Rivista del Clero Italiano” (marzo 1953) intervenne infatti con un articolo contro il falso misticismo. Ma di fronte ai celebri fatti della Madonna delle lacrime di Siracusa (agosto-settembre 1953) il suo atteggiamento dubbioso scomparve.

Nel suo cuore – vogliamo così pensare – Don Calabria comprese, di fronte alle straordinarie manifestazioni della Madre di Dio, Mediatrice universale di grazie, l’importanza del sacrificio personale, delle proprie lacrime, sempre credendo, nonostante le molte traversìe patite, nel sacerdozio che tanto aveva desiderato, restando perciò, sino alla fine, saldo nelle parole accorate contenute nella Prima lettera di Pietro: “non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1Pt 4, 12-13).

 

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NOTE:

[1]  Alberto Castaldini, nato a Verona nel 1970, dottore di ricerca in Filosofia, è docente di Studi ebraici e membro della Facoltà di Teologia Greco-Cattolica dell’Università “Babes-Bolyai” di Cluj in Transilvania, e tiene corsi presso il Dr. Moshe Carmilly Institute for Hebrew and Jewish History del medesimo ateneo, di cui è professore onorario. È professore invitato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e allo Studio Teologico San Zeno di Verona. Tiene regolarmente seminari presso il Goldstein Goren Center for Hebrew Studies dell’Università di Bucarest, di cui è membro associato. Collabora inoltre con la Facoltà di Teologia Romano-Cattolica dell’Università di Bucarest. Ha tenuto su invito seminari agli studenti e ai dottorandi nelle Università di Trento, Genova, Verona, Ferrara, Cattolica di Brescia, Bergamo, Statale di Milano. È socio effettivo dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, dell’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova, membro onorario dell’Istituto di storia “Nicolae Iorga” dell’Accademia Romena delle Scienze di Bucarest, doctor honoris causa in Storia dell’Università di Alba Iulia (Romania). È membro del comitato editoriale delle riviste scientifiche “Studia Hebraica” (Università di Bucarest) e “Studia. Theologia Catholica” (Università di Cluj). Già membro del comitato di redazione della rivista “Aggiornamenti Sociali” (Centro San Fedele, Milano). È giornalista professionista iscritto all’albo dal marzo 2000. Dal 2006 al 2010 ha ricoperto l’incarico di direttore per chiara fama dell’Istituto italiano di cultura di Bucarest e di addetto culturale dell’Ambasciata d’Italia in Romania. Nel dicembre 2016 la Santa Sede gli ha conferito la Commenda dell’Ordine di San Gregorio Magno.

 

 

[2] D. Mondrone, Don Giovanni Calabria, umile e docilissimo strumento della Provvidenza, “La Civiltà Cattolica”, IV, 1979, n. 3107, p. 444.

[3] Nota la sua proverbiale espressione in dialetto veronese: “Buséta e tanéta”, cioè vivere sprofondato in una piccola buca, in una piccola tana, lontano dalle luci del mondo in un’umiltà assoluta.

[4] “Divenne un’antenna sensibilissima a tutti la risacca dei mali presenti e di quelli che si preparavano, con particolare riflesso per il popolo di Dio” (D. Mondrone, op. cit., p. 445).

[5] Per le notizie biografiche sul santo presbitero rimandiamo alla letteratura sul tema, promossa dalla sua congrezione, tra cui ricordiamo: Ottorino Foffano, Don Giovanni Calabria, Regnum Dei Editrice, Verona 1959; Giovanni Gadili, San Giovanni Calabria, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Di grande utilità la sintesi della documentazione probante l’esercizio eroico delle virtù nella causa di beatificazione del sacerdote veronese: Positio super virtutibus servi Dei Ioannis Calabria, Roma 1984; 1) Veronensis canonizationis servi Dei Ioannis Calabria sacerdotis fundatoris Congregationum Pauperum Servorum ed Pauperum Servarum Divinae Providentiae 1873 – 1954, relazione del P. Valentino Macca di S. Maria, O.C.D. relatore della causa, pp. 1-15;
2) Sacra Congregatio pro Causis Sanctorum, Veronensis canonizationis servi Dei Ioannis Calabria sacerdotis fundatoris Congregationum Pauperum Servorum et Pauperum Servarum Divinae Providentiae 1873-1954. Positio super virtutibus, Roma 1984, a: Informatio super vita et virtutibus, pp. 1-132. b: Summarium, pp. 1-685. Di seguito Positio 2a e 2b.

[6] Cit. in O. Foffano, op. cit., p. 412.

[7] Cit. in G. Amorth, Dio più bello del diavolo. Testamento spirituale, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, p. 67.

[8] Cit. in M. Gadili, op.cit., p. 384.

[9] Cit. in O. Foffano, op. cit., p. 409.

[10] Rinaldo Fabris, Tutto per il Vangelo. La personalità, il pensiero, la metodologia di Paolo di Tarso, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, p. 28.

[11] Il card. Carlo Maria Martini affermò in una pubblica occasione a Milano: “Don Calabria è una figura straordinaria che tiene bene il confronto con Padre Pio. Sotto certi aspetti, anzi, è più completo di P. Pio. Certo, non bisogna paragonare i santi. Entrambi sono grandi mistici, ambedue hanno operato nell’apostolato. Però, P. Pio nell’apostolato del confessionale, mentre don Calabria ha avuto un’apertura universale nella carità, per tutte le necessità, e con il suo impegno ecumenico si è spinto anche oltre i confini della Chiesa” (“Corriere della Sera”, 9 maggio 1999)

[12] Sull’inganno diabolico in generale si veda l’attenta disamina di Francesco Bamonte in Possessioni diaboliche ed esorcismo. Come riconoscere l’astuto ingannatore, Paoline, Milano 2006.

[13] Lettera del 4.3.1950, in G. Calabria, I. Schuster, Le lettere (1945-1954), prefazione di C.M. Martini, introduzione di I. Biffi, Jaca Book, Milano 2000, p. 96

[14] Lettera del 29.8.1951, ivi, p. 139.

[15] Lettera del 19.12.1946, ivi, p. 57.

[16] Lettera del 7.7.1951, ivi, p. 131.

[17] Lettera del 27.7.1949, ivi, p. 83.

[18] Lettera del 18.12.1950, ivi, p. 115.

[19] Lettera del 10.12.1951, ivi, p. 151.

[20] O. Foffano, op. cit., p. 434. L’episodio è stato così ricostruito: «La mattina del 3 dicembre del 1954 al Padre, già molto sofferente, comunicano che il Papa Pio XII è molto grave. Risponde: “Offro volentieri la mia vita per il Papa”. Dopo non molto tempo dice: “Sento che il Signore ha accettato questa offerta”. Dopo un altro po’ dice: “Mi sembra che il Signore mi venga incontro! Sento che il Signore mi è vicino”. Le ultime sue parole furono dedicate a Maria, prese da una canzoncina popolare: “Quando penso alla mia sorte, che son figlio di Maria, ogni affanno, o Madre mia, si allontana allor da me”. Poi si assopì in un sonno tranquillo. Nel tardo pomeriggio, vedendo che non si risvegliava, il medico capì che si trattava di una emiplagia cerebrale destra. Tentarono alcune cure, ma non riprese più conoscenza. Morì un’ora dopo la mezzanotte, il 4 dicembre, primo sabato del mese nonché ultimo sabato dell’anno mariano. Il Papa, inspiegabilmente si riprese e visse ancora a servizio della Chiesa per alcuni anni» (Giacomo Cordioli, La devozione a Maria nella vita di San Giovanni Calabria, “Rivista di Studi Calabriani”, Verona, a. X, 2008, pp. 110).

[21] C. Balducci, La possessione diabolica, Ed. Mediterranee, Roma 1974, p. 151.

[22] G. Cavalcoli, La buona battaglia. Saggio teologico sulla lotta contro il demonio, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1986, p. 55.

[23] Antonio Calabrese, Santa Gemma Galgani, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 172-173.

[24] C. Fabro, Gemma Galgani, testimone del soprannaturale, Ed. CiPi, Roma 1985, p. 189.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, pp. 195-196; Romolo Lodetti, I fioretti di Don Calabria. Episodi, fatti, incontri, dialoghi, presentazione di Mons. Maffeo Ducoli, vescovo di Belluno-Feltre, Edizioni Dehoniane, Roma 1999, p. 256.

[27] Così riporta la Positio: “La coscienza di don Giovanni rimase costantemente identica sia nel suo aspetto positivo di promozione della vita di fede e di morale, sia nel suo comportamento critico di ogni idea… Il profondo della sua personalità non fu mai compromesso e la sua attività raziocinante non scomparve mai” (Positio 2b, p. 405).

[28] C. Fabro, op. cit., p. 199.

[29] Ivi, p. 203. Sta scritto nella Positio che la sintomatologia presentata da Don Calabria era costituita dai “segni di una terribile sofferenza e della reazione che una persona eminente per virtù dispiega contro il mistero del male che tenta di scardinare i fondamenti della personalità” (Positio 2b, pp. 404-405).

[30] Spicca l’esempio della grande mistica cappuccina santa Veronica Giuliani che nell’esistenza terrena sopportò umiliazioni e sofferenze ritenendosi come mediatrice (o “mezzana”) della salvezza dei peccatori e la liberazione delle anime purganti. Sul tema si veda il volume di Renzo Lavatori, Il patire e l’amare. L’ardore serafico di Veronica Giuliani, Monastero San Silvestro Abate, Fabriano (Ancona) 2013.

[31] O. Foffano, op. cit., pp. 120-123.

[32] Essa deve essere intesa come “una molestia che il demonio direttamente esplica in un luogo o sulla natura animata inferiore (regno vegetale e animale), per arrivare poi indirettamente all’uomo, al quale è sempre orientato il carattere malefico del disturbo”. C. Balducci, Il diavolo, Mondadori, Milano 1994, p. 207.

[33] Sulla casistica e la riconoscibilità dei diversi casi di azione straordinaria rinviamo al recente ed esaustivo studio di P. Paolo Carlin: De cura obsessis. Riconoscere i casi di possessione diabolica, intervenire e accompagnare le persone con problemi spirituali, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017.

[34] O. Foffano, op. cit., p. 203.

[35] Ivi, pp. 424-425.

[36] Con l’annuncio della Parola di Dio, con l’esercizio del ministero sacramentale, con la cura delle anime, il sacerdote – ha osservato il domenicano p. Giovanni Cavalcoli – dona quella “luce di verità” che è arma e difesa per i fedeli, fornisce “quella vita e quella forza soprannaturali” indispensabili nella lotta contro il Maligno e ogni sua iniquità. G. Cavalcoli, op. cit., pp. 31-32.

[37] R. Lodetti, op. cit., pp. 240-241.

[38] Un ritratto spirituale in cui si sottolinea questa spiccata sensibilità di Don Calabria, unita a una volontà salda e a un spiccato senso di libertà, è in sintesi contenuto in Storia della spiritualità italiana, a cura di P. Zovatto, Città Nuova, Roma 2002, pp. 669-677 (contributi di C. Cargnoni, A. Gentili, M. Regazzoni, P. Zovatto). Ricordiamo poi l’accurato saggio di P. Graziano Pesenti: Don Giovanni Calabria, profilo ascetico-biografico, Casa Buoni Fanciulli, Verona, 1967.

[39] Il credente deve sempre considerare che la potenza del diavolo “non è infinita. Egli non è che una creatura, potente per il fatto di essere puro spirito, ma pur sempre una creatura: non può impedire l’edificazione del Regno di Dio. Sebbene Satana agisca nel mondo per odio contro Dio e il suo Regno in Cristo Gesù, e sebbene la sua azione causi gravi danni – di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica – per ogni uomo e per la società, questa azione è permessa dalla divina Provvidenza, la quale guida la storia dell’uomo e del mondo con forza e dolcezza” (Catechismo della Chiesa Cattolica 395).

[40] Positio, Summarium, p. 151.

[41] Luciano Squizzato, Il voto di vittima e la notte oscura di Don Calabria, in Id.,“Un incarico divino…”. Il “voto di vittima” e la riparazione in San Giovanni Calabria, “Rivista di Studi Calabriani”, Verona, a. VIII, 2007, vol. II., p. 80 nota.

[42] R. Lodetti, op. cit., pp. 243.

[43] Ivi, p. 256.

[44] Ivi, pp. 242-243. In un’altra occasione Don Calabria si aggirava in preda a grande agitazione nella stanza e con voce alterata diceva: “Io sono….e sono morto in questo punto e sono all’inferno” (R. Lodetti, op. cit., p. 244). Sempre con voce alterata ingiunse a un confratello di mettere da parte un rosario, e gli chiese se gli volesse bene. Il religioso rispose che voleva bene a Don Calabria, memore della raccomandazione ricevuta di non parlare con il demonio (ibidem).

[45] “Il quadro ossessivo è con discreta frequenza associato alla malinconia, pure avendo una sintomatologia sua caratteristica, che consiste in una eccessiva meticolosità e in una specie di coazione a compiere determinati gesti o pronunciare determinate parole o fissare determinati pensieri. Il malato, pur essendo consapevole della non importanza di questa coazione, non è capace di liberarsene ed entra così in uno stato di sofferenza, anche grave” (Positio 2b, p. 517).

[46] La personalità di Don Calabria univa a una spiccata sensibilità verso l’altro, il prossimo, i fratelli, i “buoni fanciulli”, i poveri della città, una convinta determinazione nella sua azione apostolica: “Aveva ottime capacità di dominio… Sapeva anche andare contro corrente con un rifiuto od un “no” se non vedeva chiaramente» (Positio 2b, p. 517). Nella Positio così si sintetizza efficacemente la personalità calabriana: “Animo percettivo e volontà solida” (Positio 2b, pp. 394-395). Certamente nell’ultima fase della sua esistenza questi tratti riconoscibili ebbero a mutare in ragione delle sofferenze quotidiane.

[47] F. Bamonte, op. cit., p. 83.

[48] Va inoltre precisato che, a quanto risulta, Don Calabria non fu mai sottoposto ad esorcismo.

[49] R. Lavatori, Satana, un caso serio. Studio di demonologia cristiana, EDB, Bologna 1995, p. 40. Pur vero è che «Satana si mostra come colui che sta all’opposto di dove sta Cristo, che possiede uno spirito del tutto contrario a quello di Cristo, che compie azioni agli antipodi di quelle di Cristo (1 Gv 2, 22). Per conoscere dunque chi è e cosa fa Satana occorre conoscere chi è e cosa fa Cristo, poiché solo la parte positiva fa capire quella negativa. La rivelazione di Cristo corrisponde anche alla rivelazione di Satana, il “mysterium salutis” illumina anche il “mysterium iniquitatis”» (Ivi, p. 407).

[50] R. Lodetti, op. cit., p. 245. Il cui nome è citato nel libro deuterocanonico di Tobia, dal persiano aeshma daeva ossia “spirito dell’ira”, demone distruttore. Cfr. José Antonio Fortea, Summa Daemoniaca. Trattato di Demonologia e Manuale dell’Esorcista, Tre Editori, Roma 2008, p. 24.

[51] R. Lodetti, op. cit., p. 234-235

[52] Padre Candido Amantini, presentazione a Gabriele Amorth, Un esorcista racconta, Edizioni Dehoniane, Roma 1991, p. 8.

[53] R. Lodetti, op. cit., p. 237. Possediamo la descrizione di un sogno significativo che fece Don Calabria: «Una di queste sere a Negrar il Venerato Padre Don Giovanni fece questo sogno (o più che sogno). Gli pareva di vedere Satana che era [un] gran brutto ceffo [e che] gli dice: “Io odio Dio e per questo odio te e l’Opera che cerca solo Dio, ma io farò di tutto per annientarla!”. Don Giovanni restò molto impressionato e raccontò il sogno anche al [suo] confessore Padre Cherubino» (L. Squizzato, op. cit., p. 87). Il sogno è descritto in una cronaca del marzo 1949 all’inizio della grande sofferenza che il sacerdote patì fino alla morte.

[54] L. Squizzato, op. cit., p. 32 e nota.

[55] Ivi, p. 34 e ss.

[56] Luigi Piovan, San Giovanni Calabria: “La santità dalla sua umanità”, “Rivista di Studi Calabriani”, Verona, a. VIII, 2007, vol. I, p. 74.

[57] Circa la blasfemia la Positio riporta ad esempio: “[…] ebbe l’ossessione di avere sulla punta della lingua parolacce, bestemmie; temette di essere abbandonato da Dio e di non essere compreso dai suoi stessi figli» (Positio 2b, p. 400); “La sintomatologia ossessiva da cui il Servo di Dio era in certi momenti tormentato, lo portava alla tentazione coatta, a pronunciare parole oscene o bestemmie. A ciò reagiva con estrema sofferenza e con grande consumo di energie… Mi è stato riferito che una volta una di tali bestemmie sarebbe sfuggita…” (Positio 2b, p. 221).

[58] L. Squizzato, op. cit., pp. 80-81.

[59] Ivi., p. 91.

[60] R. Lodetti, op. cit., p. 255.

[61] Ivi, p. 251.

[62] Ivi, p. 255, corsivo nostro

[63] L. Squizzato, op. cit., p. 108.

[64] Cfr. sul tema: Héctor de Ezcurra, La diagnosi differenziale tra i disturbi psicopatologici e l’azione straordinaria del demonio, in Associazione Internazionale Esorcisti (ed.), Atti del Convegno Internazionale, “Fraterna Domus” – Sacrofano Roma, 24-29 settembre 2018, AIE, Roma 2019, pp. 199-200; 202-203.

[65] Era il 1950: “[…] una volta si sedette sul davanzale della finestra quasi per buttarsi nel sottostante cortile; ripeteva in continuità le solite frasi espressive di idee fisse di delitti da lui compiuti…» (cfr. Positio 2b, pp. 399-400).

[66] Positio 2b, p. 394.

[67] In questi termini si espresse il card. Pietro Palazzini, prefetto della Congregazione dei Santi, nel corso  della plenaria del 1° dicembre 1985 alla presenza dei cardinali riunitisi per il voto sull’eroicità delle Virtù di don Calabria: “Il Suo scontro con Satana durò tutta la vita, ma sempre nell’ombra. L’affermazione che un influsso malefico demoniaco sia stato esercitato su Don Calabria, tenuta presente la sua personalità, non può essere considerata pretestuosa o diminutiva della sua grandezza spirituale. Per chi non accettasse l’influsso malefico del diavolo, rimane vero, ipoteticamente, che nel quadro psicofisico del Servo di Dio le sue convinzioni religiose abbiano raggiunto apici cosi alti da determinare momenti drammatici di sofferenza e di angoscia, nei quali l’idea satanica personificava tutte le difficoltà che si opponevano alla realizzazione dell’Opera che egli si sforzava di portare avanti. […] Se poi si tien presente che Don Calabria, pur non avendo avuto visioni di figure e simboli demoniaci (un dato però che le testimonianze sembrerebbero disconfermare, ndr), ebbe esperienze sensibili di realtà sataniche, l’interpretazione più ragionevole e maggiormente nella logica della fede è che l’intervento del maligno abbia accentuato i processi di alterazione fisica e psichica del Servo di Dio per gli stessi motivi per cui nell’ora delle tenebre si avvicinò a Cristo a rendergli più difficile il suo sacrificio” (cit. in L. Piovan, op. cit., p. 96).

[68] Cfr. veda sul tema: G. Amorth, Esorcisti e psichiatri, Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 192-205. Nella prospettiva del superamento di una antropologia dualistica, che tenga conto dell’esperienza sacramentale a fronte del “disagio dell’anima”, si veda il volume: Silvio Zonin, Alberto D’Auria, I disagi dell’anima e l’esorcismo. Liberazione e guarigione interiore nel percorso pastorale e terapeutico, SugarCo, Milano 2017.

[69] Cfr. sul tema Pio Scilligo, Molteplicità dei sé e possessioni, in Manlio Sodi (a cura di), Tra maleficio, patologie e possessione demoniaca. Teologia e pastorale dell’esorcismo, Ed. Messaggero, Padova 2003, pp. 65-78.

[70] Scrisse Mons. Franco Costa (1908-1977), vescovo di Crema: “Quando si usciva da don Calabria, si sentiva la gioia grande del santo, ma si sentiva il mistero della sofferenza” (cit. in cit. in L. Piovan, op. cit., p. 79).

[71] R. Lodetti, op. cit., pp. 257-258

[72] O. Foffano, op. cit., pp. 423-424.

[73] P. Cerusico, come attesta il Summarium della Positio, dichiarò: «Intravvidi che la sua sofferenza era causata da una positiva volontà di Dio a completare nelle sue sofferenze […]» (cit. in L. Piovan, op. cit., p. 77).

[74] L. Squizzato, op. cit., p. 77n.

[75] O. Foffano, op. cit., p. 379.

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